– Il signor Wilson? – domandai.
L'uomo alzo gli occhi su di me, con aria vaga. Il boxer medio arrivo trotterellando, fiuto la panchina e bagno dove aveva bagnato l'altro.
– Wilson? – L'uomo aveva una voce pigra, con un'ombra di cantilena.
– Oh, no. Non mi chiamo Wilson. Perche? Dovrei?
– Scusate.
Andai alla fontanella e mi spruzzai violentemente il viso con uno zampillo. Mentre mi stavo asciugando il boxer piu piccolo fece quel che doveva contro la panchina di marmo.
L'uomo che non si chiamava Wilson osservo, in tono adorante:
– La fan sempre nello stesso ordine. E meraviglioso.
– Che cosa? – domandai.
– Pipi – rispose l'uomo. – E una questione d'anzianita, a quanto sembra. Sono molto ordinati. Prima Maisie. E la mamma. Poi Mac. Ha un anno piu di Jock, il pupo. Sempre cosi. Anche nel mio ufficio.
– Nel vostro ufficio? – chiesi, e mai nessuno ebbe un'aria piu stupida, facendo una domanda.
L'uomo mi guardo, inarcando le sopracciglia biancastre, si tolse di bocca un sigaro scuro, ordinario, ne stacco un'estremita coi denti e la sputo nello stagno.
– Non fara molto bene ai pesci – osservai.
Il mio compagno mi guardo, dal sotto in su.
– Io allevo boxers. Al diavolo i pesci.
Pensai che era l'aria di Hollywood. Accesi una sigaretta e mi accomodai sulla panchina.
– Nel vostro ufficio… – ripetei. – Be', ogni giorno una nuova idea, no?
– Contro l'angolo della mia scrivania. La fanno continuamente. Le mie segretarie diventano matte. Rovina il tappeto, dicono. Ma che cos'hanno addosso le donne, al giorno d'oggi? A me non da nessun fastidio. In un certo senso mi piace. Quando ci si affeziona ai cani fa piacere guardarli anche quando fanno Un cane trascino una pianta di begonia in piena fioritura lungo il vialetto di mattoni, e la depose ai piedi del padrone. Lui la raccatto e la getto nello stagno.
– I giardinieri si seccheranno, immagino – osservo, mentre tornava a sedersi. – Oh, al diavolo, se non sono contenti possono sempre… – Si interruppe di colpo, e osservo una snella portaordini in calzoni gialli compiere una deliberata deviazione, allo scopo di attraversare il patio. La ragazza gli diede una rapida occhiata e si allontano, movendo i fianchi con un'armonia quasi musicale.
– Sapete qual e il malanno del cinema? – mi chiese l'uomo.
– Nessuno lo sa.
– Troppo sesso – affermo lui. – Il sesso e un'ottima cosa, a tempo e a luogo. Ma qui ce lo scaraventano addosso a vagoni. Ci nuotiamo in mezzo.
Ne abbiamo fin sopra i capelli. Finisce col diventare una specie di carta moschicida. – Si alzo. – E abbiamo troppe mosche, per soprammercato.
Be', piacere di avervi conosciuto signor…
– Marlowe – dissi. – Temo che non mi conosciate.
– Non conosco nessuno – dichiaro lui. – La memoria se ne va. Mi presentano troppa gente. Mi chiamo Oppenheimer.
– Jules Oppenheimer?
L'uomo annui.
– Precisamente. Prendete su un sigaro – e me ne porse uno. Gli mostrai la mia sigaretta. Lui getto il sigaro nello stagno, poi si acciglio. – La memoria se ne va – ripete tristemente. – Ho sprecato cinquanta centesimi. Non avrei dovuto.
– Siete il padrone dello studio.
Oppenheimer annui, con aria assente.
– Avrei dovuto risparmiare il sigaro. Risparmiate cinquanta centesimi e che cosa avete?
– Cinquanta centesimi – risposi, domandandomi di che cosa diavolo stesse parlando.
– Non nel cinema. Risparmiate cinquanta centesimi, nel cinema e tutto quel che ottenete sono cinque dollari di spese di ragioneria. – Tacque e fece un cenno ai tre boxers. I cani smisero di sradicare quel che stavano sradicando e lo guardarono. – Conviene occuparsi della parte finanziaria – riprese. – Io mi occupo solo della parte finanziaria. Non e difficile.
Andiamo, bambini. Torniamo al vecchio bordello. – Trasse un sospiro. – Millecinquecento teatri di posa – soggiunse.
Dovevo avere di nuovo una faccia da stupido. Oppenheimer agito una mano, in un gesto largo e m'informo.
– Millecinquecento teatri son tutto quel che ci vuole. E infinitamente piu facile che allevare boxers di razza pura. L'industria cinematografica e l'unica industria del mondo in cui si possono commettere tutti gli errori possibili e guadagnare ancora danaro.
– Dev'essere l'unica industria del mondo in cui si possono tenere tre cani che fan pipi contro la scrivania.
– Bisogna avere millecinquecento teatri di posa.
– Questo rende un po' difficili gli inizi – osservai.
Oppenheimer parve compiaciuto.
– Si, questa e la parte difficile. – Guardo oltre il prato verde, a un edificio a quattro piani, che delimitava un lato della piazza. – Ci son tutti gli uffici, la dentro – spiego. – Non ci vado mai. Non fanno altro che cambiare decorazioni. Mi fa venir male guardare la roba che qualcuno di quei signori si fa mettere nelle sue stanze. I piu costosi talenti del mondo. Date loro tutto quel che desiderano, tutti i quattrini che vi chiedono. Perche?
Non c'e ragione. Solo abitudine. Non me ne importa un corno di quel che fanno e non fanno. A me basta avere millecinquecento teatri.
– Volete che questa vostra dichiarazione sia citata, signor Oppenheimer?
– Siete un giornalista?
– No.
– Peccato. Solo per il gusto di vedere quel che accadrebbe, vorrei che qualcuno cercasse di far stampare sui giornali queste semplici ed elementari verita della vita. – Fece una pausa e sbuffo. – Non le pubblicherebbe nessuno. Avrebbero paura. Su, andiamo, bambini?
Il cane piu grosso, Maisie si avvicino e ando a fermarsi accanto a lui. Il cane medio si soffermo a rovinare un'altra begonia, poi trotterello accanto a Maisie. Il piccolo, Jock, si allineo secondo l'ordine, poi, colto da un'ispirazione improvvisa alzo una gamba contro il risvolto dei calzoni del padrone. Maisie lo scosto, con aria distratta.
– Visto? – esclamo Oppenheimer, radioso. – Jock ha cercato di saltare un turno. Maisie non ha potuto tollerarlo. – Si chino e carezzo la testa di Maisie. La grossa cagna lo fisso con aria adorante.
– Gli occhi del vostro cane – osservo il vecchio, meditabondo. – Gli occhi che non dimenticherete mai.
Si allontano pigramente, lungo il vialetto di mattoni, coi tre cani che gli trotterellavano quietamente alle calcagna.
– Il signor Marlowe?
Mi voltai e scopersi che un giovanotto alto, coi capelli rossastri, e un naso che pareva una prua era spuntato al mio fianco.
– Sono George Wilson. Piacere di conoscervi. Vedo che siete amico del signor Oppenheimer.
– Ho fatto quattro chiacchiere con lui. Mi ha insegnato come si fa a dirigere l'industria cinematografica. A quanto pare basta possedere millecinquecento teatri di posa.
– Lavoro qui da cinque anni. Non son mai riuscito a rivolgergli la parola.
– E che non vi fate fare pipi addosso dai cani influenti.
– Forse avete ragione. Che cosa posso fare per voi, signor Marlowe?
– Vorrei parlare con Mavis Weld.
– E sul set. Sta girando.
– Posso vederla sul set, per qualche minuto?
Wilson mi parve in dubbio.
– Che tipo di lasciapassare vi hanno dato?
– Un lasciapassare ordinario, credo. – E glielo porsi. Lui lo studio.
– Vi manda Ballou. E il suo agente. Credo che possiamo farcela. Teatro dodici. Volete che ci andiamo ora?
– Se avete tempo.
– Sono l'incaricato dei rapporti dello studio col pubblico. Il mio tempo e destinato ai visitatori, come voi.
Percorremmo il vialetto di mattoni, diretti verso due edifici gemelli. Da li partiva un viale piu largo, di cemento, che correva fra i teatri di posa e le aree per le costruzioni provvisorie.
– Lavorate nell'ufficio di Ballou?
– Sono uscito di li mezz'ora fa.
– Un'organizzazione notevole, m'han detto. Ho pensato varie volte di tentare anch'io un lavoro del genere. Qui piu che seccature non si ottengono.