Apersi la porta interna e nel mio studio trovai la stessa aria morta, la stessa polvere nelle imbottiture dei mobili, la stessa promessa mancata di una vita di agi. Apersi le finestre e accesi la radio. Quando si riscaldo si mise a urlare troppo forte, e appena ebbi regolato il volume sentii suonare il telefono, come se stesse suonando da un po'. Mi tolsi il cappello e presi il ricevitore.
Era ora di avere sue notizie. La sua vocetta fredda e contenuta annunzio:
– Questa volta parlo sul serio.
– Avanti.
– Prima ho mentito. Ma ora non mentisco. Ho avuto davvero notizie di Orrin.
– Avanti.
– Voi non mi credete. Lo capisco dalla voce.
– Dalla mia voce non potete capire niente. Sono un investigatore. Avete avuto sue notizie… Come?
– Per telefono, da Bay City.
– Aspettate un momento. – Deposi il ricevitore sulla cartella di cuoio marrone, costellata di macchie e accesi la pipa. Con comodo. Le bugie sono sempre pazienti. Poi ripresi il ricevitore.
– Questa commedia l'abbiamo gia recitata tutta – dissi. – Avete poca memoria, per la vostra eta. Non credo che il dottor Zugsmith approverebbe.
– Vi prego, non mi punzecchiate. E una cosa molto seria. Orrin ha ricevuto la mia lettera. E andato all'ufficio postale e ha chiesto la sua corrispondenza. Sapeva dove avrei alloggiato, e pressappoco l'epoca in cui sarei stata qui. Cosi mi ha telefonato. Abita con un dottore che ha conosciuto a Bay City. Fa del lavoro per lui. Ve l'ho detto che aveva frequentato due anni di medicina.
– Questo dottore ha un nome?
– Si. Un nome strano. Dottor Vincent Lagardie.
– Un momento, per cortesia. C'e qualcuno alla porta.
Misi giu il ricevitore con infinita precauzione. Come se fosse fragile.
Trassi un fazzoletto di tasca e mi asciugai il palmo della mano, quella che aveva tenuto il ricevitore. Mi alzai, andai all'armadio a muro e mi guardai nello specchio macchiato. Ero proprio io. Avevo una espressione ansiosa, tirata. Vivevo troppo intensamente.
Dottor Vincent Lagardie, Wyoming Street 965. A due passi dalla Casa della Pace Garland. Una palazzina di legno, sull'angolo. Tranquilla. Paraggi distinti. Amico del defunto Clausen. Forse. Non a sentir lui. Ma, ugualmente, forse.
Tornai al telefono e mi costrinsi a parlare con calma.
– Come si scrive? – domandai.
Lei compito il nome. Con facilita e precisione.
– Non c'e altro da fare, allora, no? – dissi. – Tutto e bello per gli angeli… o come diavolo si dice a Manhattan, Kansas.
– Smettetela di trattarmi cosi. Orrin e in un guaio serio. Certi… – La voce le tremo lievemente, e il suo respiro mi giunse un po' affannoso. – Certi gangsters gli danno la caccia.
– Non fate la sciocca, Orfamay. Non ci sono gangsters a Bay City. Lavorano tutti nel cinema. Qual e il numero di telefono del dottor Lagardie?
Mi diede il numero. Era esatto. Non voglio dire che i pezzi del rompicapo cominciassero a combaciare, ma per lo meno cominciavano ad aver l'aria di far parte dello stesso rompicapo. Il che e tutto quello che ottengo, di solito, o quel che chiedo.
– Vi prego, andate laggiu a parlargli, e aiutatelo. Ha paura a uscire di casa. Dopo tutto vi ho pagato.
– Vi ho dato indietro i soldi.
– Be', ve li ho offerti di nuovo.
– Voi mi avete piu o meno offerto altre cose, che son molto piu di quanto possa accettare.
Vi fu di nuovo silenzio.
– D'accordo – dissi. – D'accordo. Ci andro, se riusciro a rimanere in liberta per tanto tempo. Sono in un mare di guai anch'io.
– Perche?
– Ho detto bugie e ho taciuto la verita. Son cose che finisco sempre col pagare. Non sono fortunato come certa gente.
– Ma io non mentisco, Philip. Non mentisco. Son fuori di me.
– Tirate un respiro profondo e uscite di voi in modo ch'io possa sentirvi.
– Possono ucciderlo – disse la ragazza, quietamente.
– E in questo frattempo che cosa fa, il dottor Vincent Lagardie?
– Lui non sa nulla, naturalmente. Vi prego, andateci subito. Ho qui l'indirizzo. Aspettate un secondo.
Dentro di me squillo un campanello. Quello che suona all'estremita piu lontana del corridoio, e che non suona forte, ma e bene sentire. Non importa quanti altri rumori vi siano intorno. E bene sentirlo.
– Sara sulla guida telefonica – dissi. – E per strana coincidenza io possiedo una guida telefonica di Bay City. Chiamatemi alle quattro. O alle cinque. Meglio alle cinque.
Deposi in fretta il ricevitore. Mi alzai e spensi la radio, senza aver sentito una sola parola di quel che aveva detto. Tornai a chiudere le finestre. Apersi il cassetto della scrivania, tirai fuori la mia Luger e indossai la fondina a tracolla. Mi misi il cappello e mentre mi dirigevo alla porta mi soffermai, per darmi un'occhiata allo specchio.
Avevo la faccia di uno che ha deciso di buttarsi a mare.
CAPITOLO XX
Stavano giusto terminando un funerale, alla Casa della Pace. Un grande carro funebre grigio aspettava alla porta di fianco. Vi erano varie automobili, allineate ai lati della strada, e tre grandi berline nere di fronte alla palazzina del dottor Vincent Lagardie. Un gruppo di persone compunte scendeva lungo il viale della cappella funeraria, e montava sulle automobili. Mi fermai a mezzo isolato di distanza e aspettai. Per ultime uscirono tre persone con una donna velatissima, tutta in nero, e la condussero, quasi portandola, a una grande limousine. L'impresario di pompe funebri fluttuava in giro, facendo tanti piccoli gesti, con le mani e col corpo, gesti graziosi, come un finale di Chopin. Il suo viso grigio e composto era cosi lungo che avrebbe potuto avvolgerselo un paio di volte attorno al collo.
I necrofori dilettanti portarono il feretro fuori dalla porta laterale e quelli professionisti li liberarono dal carico e lo fecero scivolare elegantemente nel carro funebre, come se non pesasse piu d'un piatto di frittelle. I fiori cominciarono ad ammonticchiarsi sopra la cassa. Le portiere di vetro si chiusero e i motori si avviarono, lungo tutto l'isolato.
Pochi minuti dopo non restava piu nulla, all'infuori di una berlina, all'altro capo della via e dell'impresario di pompe funebri che si era soffermato ad annusare un cespuglio di rose prima di rientrare a contare il malloppo.
Poi, con un sorriso radioso, svani oltre l'elegante porta in stile coloniale e il mondo fu di nuovo immobile e vuoto. La berlina rimasta non si era mossa.
Percorsi un tratto di strada, feci una svolta ad U e andai a fermarmi dietro la berlina. Il guidatore portava un abito blu e un berretto molle, con la visiera lucida. Stava facendo il gioco di parole incrociate del giornale del mattino. Inforcai un paio di occhiali da sole di specchio trasparente e gli passai accanto molto adagio, diretto alla casa del dottor Lagardie. L'autista non alzo gli occhi. Quando mi fui allontanato di alcuni metri mi tolsi gli occhiali e finsi di pulirli col fazzoletto. Captai la sua immagine in una delle lenti di specchio. Non aveva alzato gli occhi. Stava semplicemente facendo le parole incrociate. Infilai di nuovo gli occhiali e andai alla porta d'ingresso del dottor Lagardie.
Il cartello, sul battente diceva: "Suonare ed Entrare". Io suonai, ma la porta non mi lascio entrare. Aspettai. Suonai di nuovo. Aspettai di nuovo.
All'interno era tutto muto. Poi, molto lentamente, si aperse uno spiraglio nella porta e un viso magro e inespressivo, sopra un'uniforme bianca fece capolino e mi guardo.
– Mi spiace, il dottore oggi non riceve.
L'infermiera sbatte le palpebre, fissando i miei occhiali di specchio. Non le piacevano. Dietro le labbra la lingua si muoveva, ininterrottamente.
– Cerco il signor Quest. Orrin P. Quest.
– Chi? – Nei suoi occhi passo un rapido lampo di sorpresa.
– Quest. Q, come Quintessenziato, U come Ultraterreno, E come Extrasensorio, S come Subliminale, T come Trallalla. Mettete tutto insieme, e leggete Fratello.
L'infermiera mi guardo come se fossi emerso dal fondo dell'oceano, con una sirena annegata sotto il braccio.
– Vogliate scusare. Il dottor Lagardie non…