Una mano invisibile la tolse di mezzo, e un uomo alto, magro, dall'aria spiritata apparve nel vano dell'uscio semiaperto.
– Sono il dottor Lagardie. Che c'e, prego?
Gli porsi un biglietto da visita. Lui lo lesse. Poi mi guardo. Aveva la faccia bianca, tirata, di un uomo che aspetta la rovina.
– Ci siamo gia parlati al telefono – dissi. – A proposito di un certo Clausen.
– Prego, entrate – invito, frettolosamente. – Non ricordo, ma entrate.
Entrai. Il locale era buio. Gli scuri abbassati, le finestre chiuse. Era buio e freddo.
L'infermiera arretro e ando a sedersi dietro una piccola scrivania. Era una comune stanza di soggiorno, coi serramenti dipinti di bianco: serramenti che erano stati scuri, un tempo, a giudicare dall'eta della casa. Un arco quadrato divideva la stanza di soggiorno dalla sala da pranzo. Vi erano alcune poltrone e un tavolo centrale, cosparso di riviste. L'insieme aveva l'aria di quel che era; la sala d'aspetto di un medico che tiene l'ambulatorio in un'ex casa privata.
Il telefono squillo, sulla scrivania dell'infermiera. Lei allungo la mano, ma poi si fermo, e fisso l'apparecchio. Dopo un certo tempo gli squilli cessarono.
– Che nome avete detto, prima? – mi chiese il dottor Lagardie, a bassa voce.
– Orrin Quest. Sua sorella mi ha detto che lavora per voi, dottore. Sono giorni che lo cerco. Ieri sera lui le ha telefonato. Da qui, dice la signorina.
– In questa casa non c'e nessuno che si chiami cosi – annunzio educatamente il dottor Lagardie. – Non c'e mai stato.
– Non lo conoscete nemmeno?
– Non l'ho mai sentito nominare.
– Non capisco perche abbia detto una cosa simile a sua sorella.
L'infermiera si asciugo gli occhi furtivamente. Il telefono sulla sua scrivania gracchio e la fece di nuovo trasalire.
– Non rispondete – ordino il dottor Lagardie, senza voltarsi.
Aspettammo, mentre il telefono suonava. Tutti aspettano, quando un telefono suona. Dopo un po' smise.
– Perche non andate a casa, signorina Watson? Non avete niente da fare, qui.
– Grazie, dottore.
La ragazza rimase seduta, immobile, fissando il piano della scrivania.
Chiuse gli occhi, stringendoli forte, poi li riaperse, sbattendo le palpebre. E scosse il capo, con aria di sconforto.
Il dottor Lagardie torno a rivolgersi a me.
– Andiamo nel mio studio?
Passammo un'altra porta, che dava su un corridoio. Mi pareva di camminare sulle uova. L'atmosfera della casa era greve di presentimenti funesti.
Il dottore aperse una porta e mi fece passare in un locale che doveva essere stato una camera da letto, solo che ora non faceva piu pensare a una camera da letto. Era lo studio d'un medico. Piccolo. Raccolto. Da una porta aperta si scorgeva parte di un gabinetto di consultazione. In un angolo funzionava una sterilizzatrice. C'era un'enorme quantita di aghi a bollire.
– Una bella quantita di aghi – osservai, pronto come sempre.
– Accomodatevi, signor Marlowe.
Il medico ando a sedersi dietro la scrivania e comincio a giocherellare con un tagliacarte lungo e sottile. Poi mi guardo, dritto in faccia, coi suoi occhi dolorosi.
– No, non conosco nessuno che si chiami Orrin Quest, signor Marlowe.
Non riesco a immaginare una sola ragione per cui una persona di questo nome debba dire che si trova in casa mia.
– Si nasconde – affermai.
Lagardie alzo le sopracciglia:
– Da che cosa?
– Da alcuni individui che potrebbero decidere di punto in bianco di piantargli uno scalpello da ghiaccio nella nuca. Per il fatto che lui e un po' troppo svelto, con la Leica. E scatta foto alla gente che vorrebbe mantenere l'incognito. O forse si tratta di qualcos'altro. Ad esempio il giovane puo essersi accorto che qualcuno traffica in "paglia". O parlo per enigmi?
– Siete stato voi a mandar qui la polizia – disse il medico freddamente.
Non apersi bocca.
– Siete stato voi a denunziare la morte di Clausen.
Io dissi esattamente quel che avevo detto prima.
– Siete stato voi a telefonarmi, per sapere se conoscevo Clausen. E io vi ho risposto di no.
– Ma non era vero.
– Non ero tenuto a darvi informazioni, signor Marlowe.
Accennai di si, trassi di tasca una sigaretta e l'accesi. Il dottor Lagardie diede un'occhiata all'orologio, si volto, sulla poltrona, e spense la sterilizzatrice. Guardai gli aghi. Un mucchio di aghi. Gia una volta, a Bay City, avevo avuto dei guai con un tale che bolliva troppi aghi.
– Da dove viene? – gli chiesi. – Dal porto?
Lui riprese tra le dita il suo tagliacarte, dall'aria malvagia. L'impugnatura d'argento, rappresentava una donna nuda. Lagardie si punse il polpastrello del pollice. Sulla puntura si formo una perla scura di sangue. Lui porto il dito alla bocca e lo lambi.
– Mi piace il sapore del sangue – disse sottovoce.
Si udi un cigolio lontano, come se la porta d'ingresso si aprisse e si richiudesse. Entrambi ascoltammo, con attenzione. Ascoltammo l'eco dei passi che scendevano i gradini esterni. Ascoltammo con le orecchie tese.
– La signorina Watson e andata a casa – annunzio il dottore. – Siamo in casa soli. – Medito un poco sul fatto e torno a lambirsi il pollice. Depose il tagliacarte con cura, sulla cartella portassorbenti. – Ah, la domanda del porto – riprese. – Pensavate alla vicinanza del Messico, senza dubbio. La facilita con cui la marijuana…
– Non ci pensavo quasi piu alla marijuana, ormai – tornai a fissare gli aghi. Lui segui il mio sguardo e si strinse nelle spalle. – Perche tanti aghi? – domandai.
– E affar vostro?
– Niente e affar mio.
– Pero sembra che aspettiate una risposta alle vostre domande.
– Parlo per parlare – affermai. – Mentre aspetto che accada qualcosa.
Sta per accadere qualcosa, in questa casa. Lo sento nell'aria.
Il dottor Lagardie lecco via un'altra perla di sangue dal pollice.
Lo fissai intensamente. Questo non mi aperse una via nei suoi pensieri.
Era nero, chiuso e tranquillo e nei suoi occhi c'era tutta l'infelicita della vita. Ma continuava ad esser gentile.
– Lasciate che vi parli degli aghi – dissi.
– Fate pure.
Riprese in mano la lunga lama sottile.
– Basta – ordinai duramente. – Mi date i brividi. Come veder accarezzare i serpenti.
Lui mise giu di nuovo il tagliacarte, con delicatezza, e sorrise.
– Mi pare che non veniamo mai al punto – osservo.
– Ci arriveremo. Ma torniamo agli aghi. Un paio d'anni fa mi e capitato un "caso" che mi ha portato da queste parti e mi ha fatto conoscere un certo dottor Almore. Abitava in Altair Street. Lavorava in maniera strana. Usciva la notte, con una gran borsa piena di siringhe… tutte pronte per l'uso.
Cariche di "medicina". Una clientela curiosa, la sua. Ubriachi, ricchi tossicomani, e ce n'e piu di quanti la gente non creda, persone sovreccitate che si erano ridotte al punto di non riuscir piu a riposare… Sofferenti d'insonnia, tutti i tipi di nevrotici che non sapevano affrontare la vita a freddo.
Gente che doveva avere la sua pilloletta o la sua punturina nel braccio.
Gente che doveva farsi dare una mano, per superare le difficolta. E tutto diventa difficile, dopo un certo tempo. Buoni affari, per il medico. E Almore era appunto il medico di quella gente. Lo si puo dire ormai. E morto un anno fa. Della sua stessa medicina.
– E voi pensate che io abbia ereditato la sua clientela?
– Qualcuno deve pur averla ereditata. Fin che ci saranno pazienti ci saranno medici.
Lagardie pareva piu esausto di prima.
– Per me, voi siete un asino, amico mio. Non conoscevo il dottor Almore. Non faccio il lavoro di cui l'accusate. Quanto agli aghi… tanto per spiegare questa sciocchezza… una volta per tutte, i medici li usano continuamente, oggigiorno, nell'esercizio della loro professione, e a volte per medicine innocentissime, come le iniezioni di vitamina. E gli aghi si spuntano. E quando son spuntati fanno male. Percio, nel corso di una giornata puo capitare di usarne una dozzina, e anche di piu. Senza che una sola siringa contenga narcotici.
Alzo lentamente il capo e mi fisso, con disprezzo.