Ai giornalisti che gli chiedevano se il piano fosse accordato il Capo Cornosecco ha risposto che vi aveva suonato sopra il Valzer del Minuto in trentacinque secondi; per quanto gli constava la cassa armonica non conteneva corde. Il Capo ha lasciato capire che la cassa conteneva qualcos'altro.
Un esauriente comunicato per la stampa verra emesso entro dodici ore, ha promesso bruscamente il Capo Cornosecco. Ovunque si sussurra che Marlowe stesse cercando di occultare un cadavere.
Un viso fluttuo, verso di me, uscendo dall'oscurita. Cambiai direzione e mi incamminai a quella volta. Ma il pomeriggio era troppo avanzato. Il sole stava tramontando. Si faceva notte rapidamente. Il viso non c'era piu.
Non c'era piu il muro, piu la scrivania. Poi non ci fu piu il pavimento. Non ci fu piu nulla.
Anch'io non ero piu la.
CAPITOLO XXI
Un enorme gorilla nero, mi aveva piantato in faccia una enorme zampa nera e spingeva, cercando di prendermi la nuca. Io spinsi in direzione opposta. Sostenere il lato piu debole di una questione e sempre stata la mia specialita. Poi mi accorsi che il gorilla stava cercando di impedirmi di aprire gli occhi.
Decisi di aprirli ugualmente. Altri l'avevano fatto. Perche non io? Raccolsi tutte le mie forze e con estrema lentezza, irrigidendo la spina dorsale, flettendo le ginocchia, usando le braccia come gomene sollevai il peso mortale delle mie palpebre.
Guardavo il soffitto, mentre giacevo supino sul pavimento, una posizione in cui mi ero trovato altre volte, per motivi professionali. Voltai il capo.
Mi sentivo i polmoni rigidi, la bocca secca. La stanza era solo lo studio del dottor Lagardie. La stessa poltrona, la stessa scrivania, le stesse pareti, le stesse finestre. Lo stesso silenzio claustrale gravava nell'aria.
Mi rizzai su un fianco, mi tenni saldo al pavimento e scossi il capo. Il pavimento parti in vite piatta. Precipito cosi, per tremila metri, poi riuscii a bloccarlo e a rimetterlo in carreggiata. Sbattei le palpebre. Stesso pavimento, stessa scrivania, stesse pareti. Ma niente dottor Lagardie.
Mi umettai le labbra ed emisi una specie di suono, molto vago, al quale nessuno bado. Poi mi tirai in piedi. Ero stordito come un derviscio, debole come una lavandaia stanca, depresso come il fondo d'una marcita, timido come un scricciolo e destinato a riuscire come un danzatore classico con una gamba di legno.
Mi trascinai, quasi a tastoni, dietro la scrivania del dottor Lagardie e cominciai a pasticciare nervosamente nel suo armamentario, alla ricerca di una bottiglia di fertilizzante liquido. Niente da fare. Mi alzai di nuovo. Il peso del mio corpo era tremendo da sollevare, come un elefante morto. Mi aggirai per la stanza, barcollando, guardando dentro agli armadietti lustri di smalto bianco che contenevano tutte le cose di cui altri avevano bisogno urgente. Finalmente, dopo quelli che mi parvero quattro anni di lavori forzati, la mia mano si chiuse intorno a un mezzo litro di alcool etilico. Tolsi il tappo alla bottiglia e fiutai. Alcool di grano. Proprio come diceva l'etichetta. Tutto quel che mi occorreva, ora, era un bicchiere e un po' d'acqua.
Un uomo in gamba avrebbe dovuto farcela. Puntai verso la porta, diretto all'ambulatorio. L'aria aveva ancora l'aroma delle pesche troppo mature.
Urtai contro i due stipiti della porta, mentre l'attraversavo, e mi fermai, per prendere di nuovo la mira.
In quel momento mi accorsi che dei passi si avvicinavano, lungo il corridoio. Mi appoggiai esausto al muro e rimasi in ascolto.
Passi lenti, strascicati, con una lunga pausa, tra l'uno e l'altro. Sulle prime mi parvero furtivi. Poi mi parvero solo molto, molto stanchi. Un vecchio che cerca di arrivare, per l'ultima volta, alla sua poltrona. Cosi eravamo in due. E in quel momento, senza nessuna ragione al mondo, pensai al padre di Orfamay Quest, sotto il portico della sua casa, a Manhattan, Kansas, che si dirigeva quietamente alla sedia a dondolo, con la pipa fredda in mano, per guardar fuori, sul prato, e farsi una bella fumatina economica, senza tabacco ne fiammiferi e senza sporcare il tappeto del salotto buono.
Gli sistemai la sedia. All'ombra, in fondo al portico, dove le belle-di-notte erano piu folte. Poi l'aiutai a sedersi. Lui guardo su, e mi ringrazio, con la parte non paralizzata del viso. Le sue unghie graffiarono i braccioli della sedia, mentre si appoggiava allo schienale.
Le unghie graffiavano, ma non i braccioli d'una sedia. Era un suono reale. Era vicino, sull'uscio chiuso che portava dall'ambulatorio al corridoio.
Era un graffiare mite, sommesso, come d'un gattino, molto piccolo, che volesse entrare. Ma si, Marlowe, tu hai sempre voluto bene, agli animali.
Va' alla porta e lascia entrare il micio. Mi avviai. Ce la feci, coll'aiuto del lettino da visite, il grazioso lettino con tanto di anellini a un capo, e i bei lenzuoletti puliti. Il fruscio era cessato. Povero micino piccino chiuso fuori e che vuol entrare. Una lacrima mi si formo negli occhi, e corse giu, lungo le guance segnate. Mi staccai dal lettino e feci quattro metri buoni senza inciampi, fino alla porta. Il cuore mi batteva a martello. E i polmoni avevano ancora l'aria d'esser rimasti in magazzino per un paio d'anni. Trassi un profondo sospiro, afferrai la maniglia e la girai. Proprio all'ultimo minuto mi venne in mente di tirar fuori la pistola. Mi venne in mente, ma non andai piu in la. Io sono un tipo che ci tiene a portare le idee sotto la luce e esaminarle ben bene, prima di accettarle. Mi parve un'impresa troppo complicata. Preferii girare la maniglia e spalancare il battente.
Il ragazzo era aggrappato allo stipite con quattro dita, ad artiglio. Quattro dita di cera bianca. Aveva gli occhi incredibilmente fondi e sbarrati, d'un grigio azzurro pallido. Gli occhi mi guardarono, e non mi videro. I nostri visi erano a pochi centimetri di distanza. I nostri fiati si incontrarono, a mezz'aria. Il mio era affrettato, aspro, il suo era un mormorio lontano, che non ha ancora cominciato a perder colpi. Dalla bocca gli usciva sangue, a bollicine, e correva giu lungo il mento. Qualcosa mi fece abbassare lo sguardo. Il sangue gli colava lentamente, lungo una gamba dei calzoni, sopra una scarpa, e dalla scarpa fluiva sul pavimento, senza fretta. Ce n'era gia una piccola pozza.
Non riuscivo a vedere dov'erano entrati i proiettili. Il ragazzo batteva i denti, come se stesse per parlare, o cercasse di parlare. Ma fu l'unico suono che venne da lui. Aveva smesso di respirare. La mascella gli si allento. Poi comincio il rantolo. E non e affatto un rantolo, naturalmente. Non somiglia neppure lontanamente a un rantolo.
I suoi tacchi di gomma stridettero sul linoleum, fra il tappeto e la soglia.
Le dita bianche scivolarono via dallo stipite. Il corpo comincio a ripiegarsi sulle gambe. Le gambe rifiutarono di sostenerlo. Si apersero a forbice. Il torso giro, a mezz'aria, come quello d'un nuotatore in un'onda. Poi il ragazzo mi si balzo addosso.
Nello stesso istante l'altro braccio, quello che non era mai stato in vista, si alzo sopra la testa e piombo avanti, in una contrazione galvanica, dietro la quale pareva non esservi alcuna carica vitale. Un'ape mi punse, fra le scapole. Qualcosa, oltre la bottiglia d'alcool che avevo tenuto in mano fino a quel momento cadde al suolo e rotolo con un rumore secco contro la parete.
Strinsi i denti, mi piantai a gambe larghe e afferrai il ragazzo sotto le ascelle. Pesava come cinque uomini. Feci un passo indietro e cercai di reggerlo. Era come tentar di sollevare l'estremita di un albero abbattuto. Caddi col mio carico. La testa del ragazzo rimbalzo sul pavimento. Non potei farci nulla. Non era presente abbastanza parte di me, per impedirlo. Lo adagiai meglio, e mi scostai da lui. Poi mi inginocchiai ad ascoltare. Il rantolo cesso. Vi fu un lungo silenzio. Poi un sospiro soffocato, molto quieto, indolente, senza premura. Un altro silenzio. Poi un altro sospiro, ancora piu lento, languido e sereno, come il vento d'estate che passa tra gli inchini delle rose.