Qualcosa accadde, al suo viso e dietro il suo viso, la cosa indefinibile che invariabilmente accade nell'attimo, sempre meraviglioso e inscrutabile, in cui tutto si appiana, e l'uomo recede, negli anni, fino all'eta dell'innocenza. Sul viso c'era ora un'ombra segreta di divertimento, gli angoli della bocca erano piegati all'insu, un'espressione quasi da monello. E tutto questo era molto stupido, perche io sapevo anche troppo bene che Orrin P.
Quest non era mai stato un ragazzo cosi.
In lontananza ululo una sirena. Rimasi in ginocchio, ad ascoltare. La sirena ululo ancora, e se ne ando. Mi alzai e mi accostai alla finestra laterale, a guardar fuori. Davanti alla "Casa della Pace" si stava formando un altro funerale. La strada era di nuovo affollata di macchine. Varie persone risalivano lentamente il viale, tra i cespi di rose. Avanzavano adagio; gli uomini col cappello in mano molto prima di arrivare al minuscolo portico in stile coloniale.
Lasciai ricadere la tendina, andai a raccogliere la bottiglia di alcool etilico, la ripulii col fazzoletto e la misi da parte. L'alcool non mi interessava piu ora. Mi chinai di nuovo, e la puntura d'ape, tra le scapole mi ricordo che c'era qualcos'altro da raccogliere. Un oggetto con un'impugnatura cilindrica di legno bianco giaceva contro il bordo della parete. Uno scalpello da ghiaccio con la lama accorciata, lunga non piu di sei centimetri. Lo tenni in controluce e osservai la punta, acuminata come un ago. Forse c'era una macchiolina del mio sangue, su quella punta. Vi passai sopra un dito, gentilmente. Niente sangue. La punta era, molto pungente.
Lavorai ancora un po' di fazzoletto, poi mi chinai e deposi lo scalpello sul palmo della mano destra del ragazzo, bianca e cerea contro la lana scura e opaca del tappeto. Ma aveva un'aria voluta, fittizia. Scossi il braccio quanto bastava per far rotolare lo scalpello giu dalla mano, sul pavimento.
Pensai di perquisire le tasche, ma qualcuno che aveva meno scrupoli di me doveva averlo gia fatto.
Preso da un panico improvviso perquisii le mie tasche, invece. Non mancava nulla. Anche la Luger, sotto il braccio, mi era stata lasciata. La trassi dalla fondina e la fiutai. Non aveva sparato. Una cosa che avrei dovuto sapere senza guardare. Non si va molto in giro, quando si e stati colpiti da una Luger.
Scavalcai la pozzanghera rosso-cupa sulla soglia e guardai nel vestibolo.
La casa era ancora muta, in attesa. Le tracce di sangue mi condussero, dall'altro capo del corridoio, a una specie di salottino maschile. C'erano un divano, una scrivania, vari libri e giornali di medicina, un portacenere con alcuni grossi mozziconi ovali. Un luccichio metallico, accanto a una gamba del divano, si rivelo per un bossolo d'automatica, calibro trentadue. Ne trovai un altro sotto la scrivania. Li raccolsi e me li ficcai in tasca.
Salii al primo piano. C'erano due camere da letto, entrambe in uso: da una eran stati portati via tutti gli indumenti, con molta cura. In un portacenere trovai altri mozziconi ovali del dottor Lagardie. La seconda camera conteneva il magro guardaroba di Orrin Quest: il completo di ricambio e un soprabito appesi ordinatamente nell'armadio a muro; le camicie, i calzini e l'altra biancheria riposti, con altrettanto ordine, nei tiretti di un cassettone. Sotto le camicie, trovai una Leica, con un obiettivo F. 2.
Lasciai tutto come stava e tornai a pianterreno, nella stanza dove giaceva il morto, indifferente a queste quisquilie. Ripulii qualche altra maniglia, per puro scrupolo, esitai, davanti al telefono della sala d'aspetto e finii col non toccarlo. Il fatto ch'io fossi ancora in circolazione indicava, con notevole chiarezza, che il dottor Lagardie non aveva ucciso nessuno.
Alcune persone stavano ancora dirigendosi verso il portico assurdamente piccolo della cappella funeraria, all'altro lato della strada. Nell'interno un organo gemeva.
Girai intorno all'angolo della casa, montai in macchina e partii. Guidai lentamente, respirando con tutta la capacita dei miei polmoni, ma, a quanto pareva, non riuscivo a immagazzinare abbastanza ossigeno.
Bay City termina a circa sei chilometri dall'oceano. Mi fermai all'ultimo bar. Era giunta l'ora di fare un'altra delle mie telefonatine anonime. Venite a prendervi il cadavere, ragazzi. Chi sono? Sono un giovanotto fortunato, che continua a trovar morti al posto vostro. E sono modesto, anche. Non voglio nemmeno che si faccia il mio nome.
Guardai nell'interno del bar-farmacia, attraverso la vetrina. Una ragazza con gli occhiali obliqui all'orientale, stava leggendo una rivista. Somigliava un po' a Orfamay Quest. Sentii qualcosa stringermi la gola.
Innestai la marcia e proseguii. La ragazza aveva il diritto di saperlo per prima, legge o non legge. Tanto, ormai avevo passato da un pezzo i limiti della legge.
CAPITOLO XXII
Mi fermai sulla porta dell'ufficio con la chiave in mano. Poi avanzai lentamente, verso l'altra porta, quella che non e mai chiusa a chiave e rimasi immobile, in ascolto. Forse lei era gia la, ad aspettarmi, con gli occhi lustri dietro le lenti oblique, e la piccola bocca umida che voleva essere baciata.
Avrei dovuto dirle delle cose dure, piu dure di quanto avesse mai sognato, e poi, dopo un certo tempo lei se ne sarebbe andata e non l'avrei piu rivista.
Non udii nulla. Tornai sui miei passi, aprii, raccolsi la posta e la portai alla scrivania. Non c'era nulla che mi facesse sentire piu grande e piu bello.
La piantai dov'era, e andai a girare la chiave nella serratura dell'altro uscio.
Dopo un lungo istante aprii e guardai fuori. Vuoto e silenzio. Ai miei piedi giaceva un pezzo di carta ripiegato. L'avevano fatto passare sotto la porta.
Lo raccolsi e lo spiegai.
Vi prego di telefonarmi immediatamente in albergo. E urgentissimo.
Devo vedervi.
Era firmato D. Chiamai il numero del Chateau Bercy e chiesi della signorina Gonzales. Chi la desidera, prego? Un momento, per cortesia, signor Marlowe. Buzz, buzz. Buzz, buzz.
– Pronto?
– L'accento esotico e piu forte del solito, quest'oggi.
– Ah, siete voi, amigo. Vi ho aspettato tanto, nel vostro curioso ufficetto. Potete venire qui, a parlare con me?
– Impossibile, aspetto una visita.
– Bene, posso venire io da voi?
– Di che si tratta?
– Niente che si possa discutere per telefono, amigo.
– Venite pure.
Rimasi seduto al mio posto, aspettando che il telefono suonasse. Ma non suono. Guardai fuori dalla finestra. La folla ribolliva, sul boulevard, la cucina del caffe vicino effondeva l'odore del "Piatto azzurro speciale" attraverso le bocchette del ventilatore. Il tempo passava, ed io rimanevo seduto, curvo sulla scrivania, a fissare l'intonaco giallo-senape della parete di fronte, e vedendovi sopra la figura indistinta di un ragazzo morente, con uno scalpello da ghiaccio in mano e sentendo la punta della sua arma bruciarmi tra le scapole. E magnifico, quello che Hollywood sa fare d'una nullita. Fa una radiosa immagine di bellezza femminile di una donnetta trasandata che dovrebbe starsene a stirare le camicie di un camionista; fa un campione di virilita, dagli occhi splendenti e dal sorriso luminoso, traboccante di sex appeal, di un ragazzotto troppo cresciuto che era destinato ad andarsene al lavoro col calderino della colazione. Di una chellerina del Texas, dotata della profondita culturale d'una protagonista di fumetti umoristici fa una cortigiana internazionale, sposata sei volte con sei milionari e tanto decadente e blase che la sua idea di un brivido consiste nel sedurre il facchino che le trasporta i mobili con la cannottiera intrisa di sudore.
E, per via mediata, Hollywood puo persino prendere un santificetur di provincia, come Orrin Quest e farne, in pochi mesi, un asso dello scalpello da ghiaccio, elevando la sua meschina malvagita al sadismo classico del pluriomicida.
Le ci vollero poco piu di dieci minuti per arrivare da me. Sentii la porta aprirsi e chiudersi, andai nella sala d'aspetto e la Gardenia d'America era la. Fu come ricevere un pugno in mezzo agli occhi. Quanto ai suoi occhi, erano profondi, neri e senza sorriso.