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Approfittatene.

Alzai una mano, e mi soffregai le labbra. Mi pareva di avere troppi denti in bocca.

Beifus abbasso gli occhi sul tavolo, prese un foglio e comincio a leggerlo. French fece un giro completo, con la sedia, appoggio i piedi sulla scrivania e guardo fuori dalla finestra aperta, verso il parcheggio. La dama arancione smise di battere a macchina.

Improvvisamente la stanza si riempi di silenzio, greve come un dolce caduto.

Mi diressi alla porta, tagliando il silenzio col mio corpo come se stessi facendomi strada in una massa d'acqua.

CAPITOLO XXIV

Di nuovo il mio ufficio era vuoto. Niente brune dalle gambe voluttuose, niente ragazzine dagli occhiali obliqui, niente uomini bruni dagli occhi da sicario.

Mi sedetti alla scrivania e guardai la luce morire. I rumori della folla che rincasava si erano spenti. Fuori le insegne al neon cominciavano a guardarsi con odio, ai due lati del boulevard. C'era qualcosa da fare, ma non sapevo che cosa. Fosse quel che fosse non sarebbe servito a niente. Feci ordine sulla scrivania, ascoltando lo stridio d'un secchio sulle piastrelle del corridoio. Riposi le mie carte in un cassetto, raddrizzai il portapenne, tirai fuori uno straccio e spolverai il piano di vetro e il telefono. Era nero e brillante, nella luce che svaniva. Non avrebbe suonato quella sera. Nessuno mi avrebbe chiamato. Non ora, non questa volta. Forse mai piu. Riposi lo straccio, piegato, con la polvere dentro, mi appoggiai all'indietro e rimasi seduto, senza fumare, senza nemmeno pensare. Ero un uomo vuoto, negativo. Non avevo viso, ne significato ne personalita. Quasi non avevo un nome. Non mi sentivo di mangiare. Non avevo nemmeno voglia di un bicchierino. Ero come il foglio di ieri del calendario, accartocciato in fondo al cestino della carta straccia.

Cosi mi tirai vicino il telefono e formai il numero di Mavis Weld. Suono e suono e suono. Nove volte. E un bel suonare, Marlowe. Credo che non ci sia nessuno in casa. Nessuno e in casa, per te. Deposi il ricevitore. Chi vorresti chiamare ora? Non hai un amico, da qualche parte, che potrebbe aver piacere di sentire la tua voce? No. Nessuno.

Fate che suoni il telefono, prego. Fate che qualcuno mi chiami, e mi trascini di nuovo nella razza umana. Anche un poliziotto. Anche Maglashan.

Nessuno e obbligato a volermi bene. Voglio solo andarmene da questa stella di ghiaccio.

Il telefono suono.

– Amigo – disse la voce di Dolores. – C'e un guaio. Un guaio grosso.

Lei vuol vedervi. Le piacete. Vi considera un uomo onesto.

– Dove? – chiesi. Non fu veramente una domanda. Fu solo un suono che mi venne dalla gola. Succhiai il cannello della pipa spenta e mi chinai, con la fronte su una mano, covando il telefono. Era una voce con cui parlare, se non altro.

– Verrete?

– Veglierei un pappagallo malato, questa notte. Dove devo andare?

– Verro io a prendervi. Saro davanti a casa vostra fra un quarto d'ora.

Non e facile arrivare dove dobbiamo andare.

– E come facciamo a tornare indietro? – chiesi. – O la cosa non ha importanza?

Ma lei aveva gia riappeso.

Al banco del drugstore ebbi il tempo di buttar giu due tazze di caffe e un tramezzino di formaggio fuso con due fette di surrogato di prosciutto affondate nel mezzo, come un pesce morto nella melma, in fondo a uno stagno prosciugato.

Ero pazzo. E mi piaceva.

CAPITOLO XXV

Era una Mercury nera, trasformabile, con il soffietto chiaro. Il soffietto era rialzato. Quando mi appoggiai al finestrino Dolores Gonzales scivolo verso di me, lungo il sedile di pelle.

– Guidate voi, amigo, per favore. Non mi e mai piaciuto guidare.

La luce del bar-farmacia le batte sul viso. Si era cambiata ancora d'abito, ma era sempre in nero, a parte una camicetta color fiamma. Pantaloni e una specie di cappa sciolta, come una giacca da riposo maschile.

Mi appoggiai alla portiera della macchina.

– Perche non mi ha chiamato lei?

– Non ha potuto. Non sapeva il numero, e aveva pochissimo tempo.

– Perche?

– A quanto ho capito mi parlava mentre una persona aveva lasciato la stanza per un momento.

– E dove sarebbe il posto da cui chiamava?

– Non so il nome della via. Ma so ritrovare la casa. Vi prego, salite in macchina e spicciamoci.

– Forse salgo – risposi. – E forse non salgo affatto. La vecchiaia e l'artrite mi han reso prudente.

– Sempre la battuta pronta – osservo lei. – Siete un uomo ben strano.

– Sempre la battuta pronta, quando e possibile – convenni. – Ma in realta sono un tipo molto comune, con una testa sola… una testa che e stata messa alla prova molto duramente, a volte. Volte che, in genere, cominciavano cosi.

– Farete all'amore con me, questa notte? – mi chiese con voce morbida.

– Ecco un'altra domanda alla quale e difficile rispondere. Probabilmente no.

– Non perdereste il vostro tempo. Non sono una di quelle bionde sintetiche con la carnagione che pare carta vetrata. Quelle ex lavandaie con le mani larghe e ossute, le ginocchia appuntite e i seni senza mordente.

– Cerchiamo di lasciare in pace il sesso, per una mezz'ora – proposi.

– E una cosa magnifica. Come i gelati di cioccolato con la panna montata sopra. Ma ci sono dei momenti in cui preferireste impiccarvi, piuttosto che mangiarli. Credo che forse mi convenga impiccarmi.

Girai attorno alla macchina, m'insinuai sotto al volante e avviai il motore.

– Andiamo verso ovest – disse la ragazza. – Attraversiamo Beverly Hills e poi proseguiamo in quella direzione.

Innestai la marcia e voltai l'angolo, puntando verso Sunset Boulevard.

Dolores tiro fuori una delle sue lunghe sigarette marrone.

– Avete portato una rivoltella?

– No. A che mi servirebbe? – La mia ascella premeva contro la Luger, nella fondina a tracolla.

– Forse e meglio di no.

La ragazza infilo la sigaretta nelle molle d'oro e l'accese con l'accendisigari d'oro. La luce che le batteva sul viso pareva inghiottita dagli occhi neri, senza fondo.

– In che specie di grana si trova, la signorina Weld?

– Non lo so. Mi ha detto solo che era in un guaio, che aveva molta paura e aveva bisogno di voi.

– Avreste dovuto essere in grado di inventare una frottola migliore.

Non mi rispose. Mi fermai a un semaforo e mi voltai a guardarla. Piangeva sommessamente, nel buio.

– Non torcerei un capello, a Mavis Weld – balbetto. – Ma non mi aspetto che mi crediate.

– D'altronde – soggiunsi – il fatto che non abbiate una storia pronta depone a vostro favore.

Comincio a scivolare verso di me, lungo il sedile.

– Rimanete dalla vostra parte – ordinai. – Devo guidare questa baracca.

– Non volete che vi appoggi la testa sulla spalla?

– Non con questo traffico.

Mi fermai, all'angolo di Fairfax Avenue, col semaforo verde per permettere a un pedone di voltare a sinistra. Dietro di me alcuni clackson suonarono rabbiosamente. Quando ripartii la macchina che veniva subito dopo la mia mi si porto al fianco e un uomo corpulento in maglione, mi grido:

– Ma va a guidare un bidet!

E mi taglio la strada cosi di colpo che dovetti frenare.

– Una volta mi piaceva, questa citta – dissi, tanto per dire qualcosa, per non pensare cosi intensamente. – Tanto tempo fa. Allora c'erano due file d'alberi, lungo il Wilshire Boulevard. Beverly Hills era un paesotto di campagna. Westwood era un gruppo di colline, e i suoi lotti di terreno erano in vendita per millecento dollari, e nessuno li voleva. Hollywood era un gruppo di case di legno, lungo la linea del tram interurbano. Los Angeles era un enorme agglomerato di brutte case, asciutto e pieno di sole, senza stile e senza eleganza, ma bonario e tranquillo. Aveva il magnifico clima sul quale si blatera tanto, oggigiorno. La gente dormiva fuori la notte, sotto il portico. Le conventicole che si ritenevano intellettuali la chiamavano l'Atene d'America. Non lo era, ma non era nemmeno un bordello illuminato al neon.