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Chiusi il battente alle mie spalle e accesi di nuovo la pila. In un angolo c'era un'altra rampa di scale, con vicino un montacarichi complicatissimo, che non riuscii a far funzionare. Mi avviai su per i gradini.

In un punto remoto una cicala gracchio. Mi fermai. Si fermo anche la cicala. M'incamminai di nuovo. La cicala non riprese. In cima alle scale mi imbattei in una porta senza maniglia, che pareva tutta d'un pezzo. Un altro arnese strampalato.

Questa volta, pero, trovai l'interruttore. Era una piastra mobile, oblunga, fissata nello stipite. Troppe mani l'avevano toccata. Premetti la piastra e la porta emise uno suono metallico e il chiavistello scatto. Spinsi il battente e l'apersi, con la tenerezza di un neo laureato in medicina che aiuta a venire al mondo il suo primo bambino.

Dall'altra parte c'era un corridoio. La luce della luna, che filtrava attraverso le imposte batteva sull'angolo bianco di una stufa e sulla griglia cromata dei fornelli. La cucina pareva una piazza d'armi. Un arco aperto portava a una dispensa di servizio, piastrellata fino al soffitto. Incassati nel muro c'erano un acquaio, un enorme frigorifero, e una quantita di aggeggi elettrici per mischiare i cocktails senza faticare. Si sceglieva il beveraggio, si premeva un bottone e quattro giorni dopo si riaprivano gli occhi sul tavolo da massaggio di un bagno turco.

Oltre la dispensa una porta. Oltre la porta una sala da pranzo che al posto della parete di fondo aveva una veranda tutta di vetro attraverso la quale la luce della luna si riversava come l'acqua dalle porte di una chiusa.

Un vestibolo con un gran tappeto conduceva in un posto imprecisato. Da un secondo arco partiva una rampa volante di scale che saliva verso dell'altra oscurita, ma salendo splendeva debolmente come se fosse stata fatta di acciaio inossidabile e vetrocemento.

Finalmente arrivai a quella che doveva essere la stanza di soggiorno. I tendaggi delle finestre erano accostati e c'era un buio di pece, ma sentii che doveva essere vastissima. L'oscurita era densa, greve e nell'aria aleggiava un odore che mi diceva che qualcuno era stato la non molto tempo prima.

Trattenni il fiato e ascoltai. Forse, nel buio, un branco di tigri mi stava osservando. O forse degli individui armati di grosse pistole se ne stavano fermi, coi piedi ben piantati sul pavimento respirando a bocca aperta, senza rumore. O forse non c'era nulla e nessuno e troppa fantasia fuori luogo.

Mi appoggiai al muro e tastai in giro in cerca di un interruttore della luce. C'e sempre un interruttore. Tutti, dovunque hanno un interruttore. Di solito a destra, entrando. Quando si entra in una stanza buia si desidera la luce. D'accordo. E allora si trova un interruttore nel punto giusto all'altezza giusta. Ma non in quella stanza. Quella era una casa diversa dalle altre.

Aveva un sistema tutto suo di trattare le porte e le luci. Questa volta, forse, l'aggeggio funzionava in maniera particolarmente fantasiosa: bisognava cantare un accordo in la o do maggiore, oppure si posava il piede su un bottone piatto sotto il tappeto. O forse ci si limitava a dire: "Sia fatta la luce" e un microfono captava la voce, trasformandola in un impulso elettrico e un trasformatore dava abbastanza tensione alla corrente da chiudere un interruttore a mercurio.

Ero telepatico, quella sera. Ero un uomo che voleva compagnia, al buio, ed era disposto a pagare un prezzo molto alto, pur di ottenerla. La Luger sotto il braccio e la trentadue in mano mi rendevano duro, aggressivo.

Marlowe dalle due pistole, il franco tiratore della Riva del Cianuro.

Apersi la bocca, un po' a fatica, e dissi:

– Di nuovo buona sera. C'e nessuno, qui che ha bisogno di un investigatore?

Nulla mi rispose, nemmeno la controfigura di un'eco. Il suono della mia voce affondo nel silenzio come un capo stanco in un cuscino di piume.

Poi una luce ambrata comincio a diffondersi dalla cornice che girava tutt'attorno all'enorme sala. Crebbe molto lentamente, come se fosse stata controllata da un reostato da teatro. Le finestre erano nascoste da pesanti tendaggi color albicocca.

Anche i muri erano color albicocca. All'altro capo della sala c'era un bar, messo d'angolo, che occupava parte della dispensa di servizio. C'era una grande alcova, con alcuni tavolini attorniati da sedili imbottiti. Vi erano lampade a piedestallo, poltrone soffici, divani e divanetti e tutto il consueto armamentario di una stanza di soggiorno. Il centro del locale era occupato da alcune lunghe tavole coperte da drappi di tela che parevano sudari.

I bravi signori del posto di blocco non erano dei visionari, dopo tutto.

Ma la stanza non dava segno di vita. Era quasi deserta. Quasi, ma non del tutto.

Una bionda, avvolta in una pelliccia color cacao era in piedi, appoggiata a una poltrona dallo schienale alto, all'antica. Aveva le mani affondate nelle tasche della pelliccia. I capelli vaporosi erano appena ravviati. Il viso non era bianco gesso solo perche la luce non era bianca.

– Buona sera a voi – disse con voce opaca. – Sono ancora del parere che siate arrivato troppo tardi.

– Troppo tardi per che cosa?

Andai verso di lei. Un movimento che era sempre un piacere. Anche allora, in quella casa troppo silenziosa.

– Siete abbastanza in gamba – osservo. – Non avrei creduto… Avete trovato modo di entrare. Voi… – Le si ruppe la voce e parve che le morisse in gola.

– Ho bisogno di qualcosa di forte – disse la ragazza dopo una pausa intensa. – Altrimenti casco per terra.

– Che bella pelliccia – osservai. Le ero arrivato vicino, ora.

Avanzai una mano e la sfiorai. Lei non si mosse. La bocca le tremava.

– Martora – mormoro. – Quarantamila dollari. Noleggiata. Per il film.

– E questa fa parte del film? – chiesi indicando la stanza, con un gesto.

– Questo e il film che mette un punto fermo a tutti i films,…per me.

Io… Io… ho proprio bisogno di qualcosa di forte. Se cercassi di camminare… – La voce limpida si perse in un mormorio. Le palpebre ebbero un fremito.

– Coraggio, svenite pure – dissi. – Vi prendero al volo. Un sorriso si sforzo di preparare il suo viso al sorriso. La ragazza strinse le labbra, lottando per rimanere in piedi.

– Perche sono arrivato troppo tardi? – chiesi. – Troppo tardi per che cosa?

– Troppo tardi per farvi ammazzare.

– Oh, accidenti, e dire che per tutta sera non ho aspettato altro. Mi ha accompagnato qui la signorina Gonzales.

– Lo so.

Allungai una mano e toccai di nuovo la pelliccia. Fa piacere toccare quarantamila dollari. Anche se sono soltanto a nolo.

– Dolores restera terribilmente disillusa – osservo lei con le labbra orlate di bianco.

– No.

– Vi ha portato al macello… come ha fatto con Stein.

– Forse era partita con quell'intenzione. Ma poi ha cambiato idea.

La ragazza rise. Fu una risatina sciocca, futile come quella d'un bambino che cerca di darsi importanza a una festicciola infantile.

– Come le dominate, le ragazze… – mormoro. – Ma come fate, uomo meraviglia? Con le sigarette drogate? Non possono essere la vostra eleganza, il vostro danaro o la vostra personalita. Non ne avete un filo. Non siete molto giovane, e non siete molto bello. Avete visto i vostri giorni migliori e…

Aveva parlato sempre piu in fretta, come un motore col controllo guasto.

Alla fine balbettava sillabe senza senso. Quando si fermo un sospiro stanco corse lungo il silenzio. Le si piegarono le ginocchia e cadde in avanti, tra le mie braccia.

Se era una scena preparata funziono a meraviglia. Avrei potuto avere nove pistole, una per ogni tasca, e mi sarebbero state utili quanto le candeline rosa di una torta di compleanno.

Ma non accadde nulla. Nessun sicario con un'automatica spianata mi prese di mira. Nessuno Steelgrave mi sorrise, col suo sorrisetto vago, asciutto, remoto, da assassino. Nessun passo furtivo risuono alle mie spalle.