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La ragazza mi rimase tra le braccia, floscia come una tovaglia bagnata, meno pesante di Orrin Quest, perche era meno morta, ma abbastanza pesante da farmi dolere i tendini delle ginocchia. Aveva gli occhi chiusi, quando le scostai la testa dal mio petto. Il respiro era: impercettibile: intorno alle labbra semiaperte aveva un alone bluastro.

Le passai un braccio sotto le ginocchia e andai a deporla su un divano dorato. L'assestai un po', poi mi diressi al bar. C'era un telefono, in un angolo, ma non riuscii a trovare una via d'accesso ai liquori. Dovetti scavalcare il banco. Scelsi una bottiglia, dall'aria promettente, con un'etichetta blu e argento con cinque stelle. Il tappo era stato allentato. Versai il cognac, scuro e pungente in un bicchiere destinato a qualcos'altro e scavalcai di nuovo il banco, portandomi dietro la bottiglia.

Mavis Weld giaceva dove l'avevo lasciata, ma aveva gli occhi aperti.

– Siete in grado di reggere un bicchiere?

Ci riusci, con un po' d'aiuto. Bevve il liquore e premette forte l'orlo del bicchiere contro le labbra, come per tenerle ferme. Guardai il suo respiro annebbiare la coppa di vetro. Sulle labbra le si formo lentamente un sorriso.

– Ho freddo, questa sera – mormoro.

Fece un mezzo giro e poso i piedi sul pavimento.

– Ancora – disse tendendomi il bicchiere. Le versai dell'altro liquore.

– E il vostro dov'e?

– Non bevo. Sono gia abbastanza eccitato senza bisogno di alcool.

Il secondo liquore la fece rabbrividire. Ma l'alone bluastro, intorno alla bocca se ne era andato, le labbra non splendevano piu rabbiosamente come segnali di traffico vietato e le minuscole rughe intorno agli occhi erano di nuovo in movimento.

– Chi vi eccita?

– Oh, una quantita di donne che fanno a gara a buttarmi le braccia al collo, a svenirmi addosso e farsi baciare e cosi via. Sono stati due giorni piuttosto movimentati, pieni, per un miserabile piedipiatti senza nemmeno uno yacht.

– Nemmeno uno yacht – ripete lei. – Non lo potrei sopportare. Sono stata allevata nel lusso.

– Gia – dissi. – Siete nata con una Cadillac in bocca. E io ho indovinato dove.

– Davvero?

– Credevate che fosse un segreto inviolabile?

– Io… io… – S'interruppe e fece un gesto di sconforto. – Questa sera non riesco a trovare le battute.

– E il dialogo del technicolor – spiegai. – Paralizza il cervello.

– Non vi pare che stiamo parlando come due pazzi?

– Possiamo diventare subito savi. Dov'e Steelgrave?

Lei si limito a guardarmi. Mi tese il bicchiere vuoto ed io lo presi e lo deposi da qualche parte, senza toglierle gli occhi di dosso. E lei non tolse gli occhi di dosso a me. Trascorse un lungo istante.

– E stato qui – disse infine Mavis, lentamente, come se dovesse inventare le parole una per una. – Mi date una sigaretta?

– Il vecchio trucco della sigaretta, per tirare in lungo – osservai. Trassi di tasca due sigarette e le accesi. Poi mi chinai e gliene infilai una fra le labbra scarlatte.

– Non c'e nulla di piu puerile – convenne la ragazza. – Eccetto i bacini sulle guance, forse.

– Il sesso e una splendida cosa, quando non si vuole rispondere alle domande.

Lei aspiro una boccata di fumo, sbatte le palpebre e si porto una mano sulla bocca, per sistemare la sigaretta. Dopo tanti anni non ho ancora imparato a mettere in bocca una sigaretta a una ragazza nel punto giusto.

Mavis scosse il capo, si lascio ricadere i capelli morbidi intorno al viso e mi sogguardo, per vedere fino a che punto la cosa mi faceva effetto. Tutto il pallore se ne era andato, ormai. Le guance erano un po' accese. Ma negli occhi c'erano tante cose guardinghe, in attesa.

– Siete abbastanza simpatico, per essere quello che siete – osservo, quando non feci nulla di sensazionale.

Sopportai bene anche questa prova.

– Ma io in fondo non so veramente chi siete, no? – A un tratto scoppio a ridere, e una lacrima spunto, da chissa dove e le scivolo lungo una guancia. – Per quel che ne so io potete essere simpatico… pur essendo praticamente chiunque. – Si strappo la sigaretta dalle labbra, poi porto una mano alla bocca e vi affondo i denti. – Ma che cosa mi succede? – domando – sono ubriaca?

– State cercando di guadagnar tempo – ribattei. – Ma non so decidere se lo fate per dar modo a qualcuno di arrivare qui… o per permettere a qualcuno di scappare molto lontano di qui. E magari e solo colpa del liquore, subito dopo una scossa nervosa. Siete una povera bambina che ha bisogno di piangere nel grembiule della mamma.

– Non di mia mamma – protesto. – Tanto varrebbe piangere in una secchia.

– Concesso. E cosi? Dov'e Steelgrave?

– Dovreste esser contento che non ci sia, dovunque si trovi. Doveva uccidervi. O almeno credeva di doverlo fare.

– Siete stata voi a chiamarmi qui, vero? Gli siete attaccata fino a questo punto?

Lei soffio via la cenere della sigaretta dal dorso della mano. Un bioccolo di cenere mi entro in un occhio e mi fece ammiccare.

– Devo esserlo stata… una volta. – Si poso una mano su un ginocchio e allargo le dita, studiandosi le unghie con attenzione. Poi alzo gli occhi, lentamente, senza muovere il capo. – Mi sembra che siano passati mille anni, da quando ho conosciuto un omino simpatico educato e tranquillo, che sapeva comportarsi in pubblico e non si sentiva in dovere di far pompa del suo fascino in tutte le taverne della citta. Si, mi piaceva. Gli volevo molto bene.

Si porto una mano alla bocca e si morsico la nocca d'un dito. Poi infilo quella stessa mano nella tasca della pelliccia e ne trasse un'automatica dall'impugnatura bianca, la gemella di quella che avevo in tasca.

– E alla fine gli ho voluto bene con questa – concluse.

Le andai vicino e le tolsi l'arma di mano. Fiutai la canna. Si. Aveva sparato. E con questa facevano due.

– Non l'avvolgete in un fazzoletto come fanno nei film?

Mi lasciai cadere la rivoltellina nella tasca ancora vuota, dove avrebbe potuto raccogliere qualche interessante briciola di tabacco e alcuni semi esotici che nascono solo sul versante sud est del municipio di Beverly Hills. Forse avrebbe dato da divertirsi al chimico della polizia, per un po'.

CAPITOLO XXVII

Rimasi a osservarla, per qualche minuto, mordendomi un labbro. Lei osservava me. La sua espressione non era cambiata. Cominciai a percorrere la stanza con lo sguardo. Alzai la copertura di tela d'uno dei tavoli. Sotto c'era un tappeto da roulette, ma non la ruota. Sotto il tavolo non c'era nulla.

– Provate la poltrona con le magnolie – consiglio Mavis Weld.

Non guardo verso la poltrona, cosi dovetti trovarmela da solo. E incredibile, quanto tempo mi ci volle. Era una poltrona di chintz a fiorami, dallo schienale alto, a conchiglia, il tipo che tanti anni fa si costruiva appositamente per riparare dagli spifferi quando si stava chini su un fuoco di carbone bituminoso.

Le girai attorno lentamente, senza rumore. Era quasi del tutto rivolta verso il muro. Tuttavia era ridicolo che non avessi notato il morto, mentre tornavo dal bar. Era rannicchiato in un angolo, con la testa rovesciata indietro. Il suo garofano era bianco e rosso e fresco, come se la fioraia gliel'avesse appuntato al bavero un istante prima. Gli occhi erano semiaperti, come sono spesso gli occhi di quel genere. Fissavano un punto imprecisato, in un angolo del soffitto. Il proiettile era penetrato attraverso il taschino della giacca a doppio petto. Chi aveva sparato sapeva dove si trovava il cuore.

Gli toccai una guancia, ed era ancora calda. Gli alzai una mano e la lasciai ricadere. Era completamente inerte. Posai le dita sulla grossa arteria del collo. Il sangue non pulsava piu. Solo poche gocce rosse avevano macchiato la giacca. Mi asciugai le dita, nel fazzoletto e rimasi ancora per qualche istante a fissare il piccolo viso tranquillo del morto. Tutto quel che avevo fatto o non fatto, buono o cattivo era stato inutile.

Tornai al divano, mi sedetti accanto alla ragazza e mi strinsi le ginocchia fra le mani.

– Che cosa vi aspettavate? – mi chiese Mavis. – Aveva ucciso mio fratello.