Fece una pausa, per riprender fiato. Aveva il viso un po' lustro di sudore.
Si chino in avanti, con la schiena rigida, facendo perno sulle anche.
– Ci volete anche voi – ripete. – Ci vogliono gli imbroglioni con la licenza da investigatore privato che nascondono informazioni, procedono sempre per vie traverse e sollevano una quantita di polvere, tanto per farcela respirare tutta. Ci volete anche voi, che distruggete le prove e fabbricate delle messinscene che non ingannerebbero neanche un bambino deficiente.
Ve ne avete a male se vi dico che siete una spia, uno schifoso e un venduto?
– Volete che me ne abbia a male? – domandai.
French si raddrizzo.
– Ne sarei felice – affermo. – Felice come una pasqua.
– Parte di quel che avete detto e vero – concessi. – Non tutto. Qualunque investigatore privato desidera sempre fare il gioco della polizia. A volte, pero, e un po' difficile capire chi stabilisce le regole del gioco. A volte l'investigatore privato non si fida degli agenti, e con ragione. A volte si caccia in una grana, senza averne l'intenzione e deve giocare la partita con le carte che si e trovato in mano. Di solito preferirebbe ricominciar tutto da capo. Vorrebbe continuare a guadagnarsi il pane.
– La vostra licenza e scaduta – annunzio French. – Da questo momento. Di questo problema non ci dovremo piu preoccupare.
– La mia licenza scadra quando la commissione che me l'ha concessa dira che e scaduta. Non prima.
– Continuiamo il lavoro Christy – intervenne Beifus, con calma. – Questa faccenda puo aspettare.
– Sto continuando il lavoro – ribatte French. – A modo mio.
– Questo brav'uomo non mi ha ancora risposto a tono. E io aspetto proprio che mi risponda a tono. Una replica tagliente, spiritosa. Non ditemi che siete a corto di frecciate, Marlowe.
– Cosa volete che vi dica? – domandai.
– Indovinate.
– Siete un lupo mannaro, questa sera – osservai. – Volete mangiarmi in un boccone. Ma vi occorre una scusa. E pretendereste che ve la dessi io?
– Potrebbe farmi comodo – borbotto lui tra i denti.
– Che cosa avreste fatto al mio posto? – domandai.
– Non mi vedo scendere cosi in basso. – Si sfioro il labbro superiore con la lingua. La mano destra gli pendeva lungo il fianco. Continuava ad aprire e chiudere il pugno, senza accorgersene.
– Prendila calma, Christy – consiglio Beifus. – Lascia perdere.
French non si mosse. Beifus si avvicino e si pianto fra me e lui.
– Levati di li, Fred – ordino French.
– No.
French strinse il pugno e gli assesto un violento diretto alla mascella.
Beifus arretro, barcollando, e mi spinse da parte. Le ginocchia gli si fecero molli. Si chino in avanti tossendo. Sempre piegato in due scosse il capo, lentamente. Dopo qualche istante si raddrizzo, con un verso gutturale. Si volto a guardarmi e sorrise.
– E un nuovo genere di terzo grado – disse. – I poliziotti si cazzottano a sangue e l'elemento sospetto, sconvolto dallo spettacolo, perde le staffe e confessa.
Alzo una mano e si tasto l'angolo della mascella. Stava gia gonfiandosi.
La bocca sorrideva, ma gli occhi erano ancora un po' vaghi. French era rimasto inchiodato al suo posto, immobile e silenzioso.
Beifus trasse di tasca un pacchetto di sigarette, lo scosse, per farne uscire una e lo porse al collega. French guardo la sigaretta. Poi guardo Beifus.
– Diciassette anni di questa vita – mormoro. – Anche mia moglie mi odia.
Diede un leggero schiaffo a Beifus, sulla guancia, con la mano aperta.
Beifus continuo a sorridere. French domando:
– Eri tu, quello che ho picchiato, Fred?
– Nessuno mi ha picchiato, Christy. – Nessuno, che io ricordi.
– Liberagli i polsi e portalo fuori, in macchina – ordino French. – E in arresto. Ammanettalo al volante, se ti pare necessario.
– Benissimo. – Beifus mi giro dietro. Le manette si apersero. – Andiamo, cocco.
Fissai French, intensamente. Lui mi guardo come se fossi stato la tappezzeria. I suoi occhi non mi vedevano.
Uscii dalla sala e uscii dalla casa.
CAPITOLO XXIX
Non venni mai a sapere il suo nome. Pero era piuttosto piccolo e magro, per un poliziotto; cosa che doveva essere, sia perche si trovava la, sia perche quando si era sporto sul tavolo, per prendere una carta gli avevo visto, sotto l'ascella, una fondina a tracolla e il calcio di una trentotto d'ordinanza della polizia.
Non parlava molto, ma quando apriva bocca aveva una voce simpatica, morbida e tranquilla. E un sorriso che riscaldava tutta la stanza.
– Magnifica disposizione – osservai, guardandolo al di sopra delle carte.
Stavamo giocando un doppio "rosso e nero". O meglio lui lo stava giocando. Io ero la, e lo guardavo, guardavo le sue mani piccole, molto ben fatte, molto pulite muoversi lungo il tavolo, sfiorare una carta, sollevarla delicatamente e deporla in un altro posto. Giocando sporgeva le labbra e fischiettava, senza melodia, un fischio discreto e sommesso, come quello di una locomotiva giovanissima, non ancora del tutto sicura di se.
L'uomo sorrise e depose un nove rosso su un dieci nero.
– Che cosa fate nelle ore libere? – domandai.
– Suono molto il piano – rispose. – Ho uno Steinway a coda. Suono Mozart e Bach, principalmente. Molti li giudicano noiosi. Io no.
– Magnifica disposizione – ripetei, e spostai una carta.
– Non potete credere come siano difficili certi pezzi di Mozart – soggiunse l'uomo. – E sembra cosi semplice, quando e suonato bene.
– Chi lo suona bene?
– Schnabel.
– E Rubinstein?
Scosse il capo.
– Troppo carico. Troppo emotivo. Mozart e solo musica. Non ha bisogno di commento da parte dell'esecutore.
– Scommetto che riuscite a metter molta gente nelle disposizioni migliori per confessare – dissi. – Vi piace il vostro lavoro?
Lui sposto un'altra carta e flette leggermente le dita. Aveva le unghie lucide, ma corte. Si capiva che gli piaceva muovere le mani, fare tanti piccoli gesti insignificanti, ma morbidi, fluenti come le piume del petto d'un cigno. Erano mani che facevano pensare a cose delicate, compiute delicatamente, ma non senza forza. Mozart, appunto. Potevo capirlo.
Erano circa le cinque e mezzo e il cielo, dietro gli scuri abbassati, si stava facendo piu chiaro. La scrivania a saracinesca, nell'angolo, era chiusa.
Era la stessa stanza del pomeriggio precedente. A un capo della tavola giaceva una tozza matita di legno, che qualcuno aveva raccolto dopo che il tenente Maglashan di Bay City l'aveva scaraventata contro il muro. La scrivania dove era stato seduto Christy era cosparsa di cenere. Un vecchio mozzicone di sigaro era in bilico, sull'orlo di un portacenere di vetro. Una falena girava in circolo attorno alla lampada, che pendeva per un cordone dal soffitto, protetta da uno di quei paralumi di vetro bianco e verde che si usano ancora negli alberghi di campagna.
– Stanco? – domando l'omino.
– Sfinito.
– Non dovreste andarvi a cacciare nei pasticci cosi elaborati. Non vedo che senso ci sia.
– Non c'e senso a sparare a un uomo?
Lui sorrise, il suo sorriso caldo.
– Voi non avete sparato a nessuno.