Lo tirai di nuovo su, lo feci sedere sulla poltrona imbottita dal bracciolo bruciacchiato e gli versai un'altra dose della sua medicina. Lui la bevve, fu scosso da un brivido violento e ad un tratto i suoi occhi parvero diventare ragionevoli e astuti. Gli ubriachi di quel tipo hanno dei momenti di lucidita in cui sono perfettamente equilibrati. Non si puo mai sapere quando arriveranno ne quanto potranno durare.
– Chi diavolo siete? – mugolo.
– Sto cercando un certo Orrin P. Quest.
– Che?
Ripetei la frase. Lui si passo le mani sulla faccia, sporcandosela, e annunzio, laconicamente:
– Andato via.
– Dove e quando?
L'uomo agito una mano e quasi cadde dalla sedia: poi agito la mano nell'altro senso, per riprendere l'equilibrio.
– Datemi un cicchetto – brontolo.
Versai un'altra dose di gin ma tenni il bicchiere in modo che non potesse prenderlo.
– Datemi – balbetto con ansia. – Sono molto giu.
– Tutto quel che voglio e l'attuale indirizzo di Orrin P. Quest.
– Ma pensa un po' – esclamo lui, con l'aria di dire una barzelletta, e fece un debole tentativo per afferrare il bicchiere che tenevo in mano.
Deposi il bicchiere sul pavimento e trassi di tasca un biglietto da visita, di quelli d'ufficio.
– Questo forse vi aiutera a concentrarvi – dissi.
Il direttore scruto il cartoncino, attentamente, lo piego a meta poi lo piego ancora. Lo tenne sul palmo della mano aperta, per un istante, ci sputo sopra e lo butto via, facendoselo volare dietro la spalla.
Gli porsi il bicchiere di gin. Lui bevve alla mia salute, annui, con aria solenne e si butto anche il bicchiere dietro la spalla. Il bicchiere rotolo sul pavimento e ando a urtare il bordo di legno della parete. L'uomo si alzo, con sorprendente facilita punto un pollice contro il soffitto e strinse a pugno le altre dita, emettendo un suono aspro con la lingua e i denti.
– Filate – ordino. – Ho degli amici, io. – Diede un'occhiata al telefono a muro, poi si volto a guardarmi, con aria astuta. – Un paio di ragazzi che vi sistemeranno – spiego in tono sprezzante. Io non apersi bocca.
– Non mi credete, eh? – ruggi, montando improvvisamente in collera.
Scossi il capo. L'uomo si diresse al telefono, strappo il ricevitore dal gancio e compose le prime cinque cifre di un numero. L'osservai attentamente. Uno-tre-cinque-sette-due.
Questo consumo tutte le sue energie, per il momento. Lascio ricadere il ricevitore contro il muro, con fracasso, e si sedette sul pavimento, di fianco ad esso. Poi vi poso contro l'orecchio e mugolo, rivolto alla parete:
– Fatemi parlare col dottore. – Ascoltai in silenzio. – Vince! Il dottore! – urlo l'uomo, rabbiosamente.
Scosse il ricevitore e lo getto lontano da se. Poi poso le mani sul pavimento e comincio a girare in tondo, carponi. Quando mi scorse parve sorpreso e irritato. Si alzo di nuovo in piedi tremando e tese una mano:
– Datemi un cicchetto.
Ricuperai il bicchiere e munsi di nuovo la bottiglia del gin. L'uomo accetto il liquore con la dignita di una vedova ubriaca e lo butto giu con un gran gesto. Poi si diresse tranquillamente verso il divano e si sdraio, usando il bicchiere per cuscino. Si addormento di colpo.
Riappesi il ricevitore al suo gancio, diedi un'altra occhiata in cucina poi perquisii l'uomo sdraiato e in una tasca pescai un mazzo di chiavi. Una era un passe-partout. La porta del corridoio aveva una serratura a scatto. La sistemai in modo da poterla riaprire e mi incamminai su per le scale. Lungo il tragitto mi fermai per scrivere su una busta: Dott. Vince, 13572. Forse era un indizio.
Tutta la casa era in silenzio, mentre salivo.
CAPITOLO IV
La chiave universale del direttore giro silenziosamente nella serratura della camera 14. Spinsi la porta. La camera non era vuota. Un uomo tozzo, robusto, era chino su una valigia, posata sul letto, e dava le spalle all'uscio.
Camicie, calzini e altri capi di biancheria erano stesi sulla coperta e l'uomo stava riponendoli in valigia ordinatamente, senza fretta, fischiettando tra i denti una nenia sommessa, senza melodia.
Quando senti un cardine cigolare si irrigidi. La sua mano sfreccio verso il cuscino.
– Vogliate scusare – esclamai. – Il direttore mi aveva detto che questa stanza era libera.
L'uomo era calvo come un'arancia. Portava un paio di calzoni grigi, con le bretelle di plastica trasparente sopra una camicia blu. La sua mano usci di sotto al cuscino, si accosto al capo e torno giu. L'uomo si volto e aveva i capelli.
Erano incredibilmente naturali: lisci, bruni, senza scriminatura. Lo sconosciuto mi guardo male, da sotto la sua chioma.
– Potevate almeno bussare – protesto.
Aveva la voce profonda, un po' rauca e un viso largo, circospetto, che aveva visto molte cose.
– Perche avrei dovuto? Se il direttore mi ha detto che la stanza era vuota.
Lui accenno di si, soddisfatto, e smise di guardarmi male.
Mi feci avanti, senza essere invitato. Un giornaletto d'amore giaceva a faccia in giu, sul letto, vicino alla valigia. Un sigaro fumava, dentro un portacenere. La stanza era ben tenuta e ordinata, e, per quella casa, pulita.
– Il direttore deve aver creduto che ve ne foste gia andato – dissi cercando di sembrare un elemento pieno di buone intenzioni, con un certo talento per la verita.
– Tra mezz'ora me ne vado.
– Avete niente in contrario se mi guardo un po' attorno?
Lui sorrise, senza allegria.
– Non e molto che siete in citta, vero?
– Perche?
– Siete nuovo di questi paraggi, eh?
– Perche?
– Vi piacciono la casa e il quartiere?
– Non molto – affermai. – La stanza pero mi ha l'aria di andar bene.
– L'uomo sogghigno, mettendo in mostra una rivestitura di porcellana, molto piu chiara degli altri denti.
– Da quanto tempo cercate alloggio?
– Ho appena cominciato. Perche tante domande?
– Mi fate ridere – dichiaro l'uomo, senza ridere. – In questa citta non si stanno ad esaminare le stanze. Si arraffano senza neanche vederle. Questo paesaccio e cosi affollato anche al giorno d'oggi, che io potrei guadagnare dieci dollari solo andando in giro a dire che qui c'e un posto libero.
– E un vero peccato – affermai. – E stato un certo Orrin P. Quest a parlarmi di questa camera. E cosi voi perdete un decione.
– Davvero?
Non aveva battuto ciglio. Non aveva mosso un muscolo. Tanto mi sarebbe valso parlare a una tartaruga.
– Non fate il villano con me – consiglio l'uomo. – Io sono un osso duro, per i villani.
Prese il sigaro dal portacenere di vetro verde e soffio una boccata di fumo. Poi mi fisso, attraverso la nuvola, coi suoi freddi occhi grigi. Io trassi di tasca una sigaretta, e me ne servii per grattarmi il mento.
– Che cosa capita, a quelli che fanno i villani con voi? – m'informai.
– Li costringete a reggervi il parrucchino?
– Lasciate stare il mio parrucchino – fece l'uomo, con violenza.
– Dolentissimo.
– C'e un cartello con "Tutto esaurito", sulla porta – riprese l'uomo. – Come va che voi siete venuto qui a cercare alloggio?
– Non avete capito bene il nome che vi ho detto – insistei. – Orrin P.
Quest. – E gli spiegai come si scriveva. Nemmeno questo lo rese felice.
Vi fu una pausa stagnante, elettrica.
L'uomo si volto di scatto e trasferi una pila di fazzoletti nella valigia.
Quando torno a rivolgersi a me aveva una luce circospetta, negli occhi. Ma erano stati occhi circospetti fin dall'inizio.
– E un vostro amico? – chiese con aria noncurante.
– Siamo cresciuti insieme.
– Un tipo quieto. – Osservo l'uomo, con disinvoltura. – Ho passato giornate intere, con lui. Lavora alla Societa Aerea Cal-Western, no?
– Ci lavorava – corressi.
– Oh. Ha dato le dimissioni?
– L'han licenziato.
Continuammo a fissarci. La cosa non servi a niente, ne a lui ne a me. Ed entrambi l'avevamo fatto troppe volte, in vita nostra, per aspettarci miracoli.
L'uomo si pianto il sigaro in bocca e si sedette sul letto, accanto alla valigia aperta. Lanciai un'occhiata nell'interno e scorsi il calcio quadrato di un'automatica, che spuntava di sotto a un paio di mutande mal piegate.