– Quest se ne e andato da dieci giorni – mormoro l'uomo, pensoso. – E cosi crede che la camera sia ancora libera, eh?
– Anche secondo il registro e libera.
L'uomo emise un mugolio sprezzante.
– Quella spugna, giu dabbasso… molto probabilmente e un mese che non guarda il registro. Ehi, dico… un momento!
Gli occhi gli si fecero piu acuti; una mano vago pigramente verso la valigia aperta e diede un colpetto ancor piu pigro a qualcosa che stava molto vicino alla pistola. Quando la mano si scosto l'arma non era piu in vista.
– E tutta la mattina che ho la testa fra le nuvole altrimenti l'avrei capito subito. Voi siete un piedipiatti.
– Benissimo. Facciamo conto ch'io sia un piedipiatti.
– C'e qualcosa che non va?
– Niente. Solo ero curioso di sapere come mai avevate questa stanza.
– Mi sono trasferito qui dal 15, all'altra parte del pianerottolo. Questo locale e migliore. Ecco tutto. Semplice no? Siete soddisfatto?
– Soddisfattissimo – affermai, tenendo d'occhio la mano, che, volendo, avrebbe potuto tornare vicino alla pistola.
– Che tipo di piedipiatti siete? Della polizia locale? Vediamo un po' la patacca.
Non dissi nulla.
– Non credo che l'abbiate, il pataccone.
– E se ve lo mostrassi, voi sareste il tipo da dire che e falso. Dunque siete Hicks.
Lui parve sorpreso.
– George W. Hicks – ripresi. E scritto nel registro – Camera quindici, piano secondo. Avete appena finito di dirmi che vi siete trasferito qui dal numero quindici. – Mi guardai attorno. – Se aveste una lavagna ve lo metterei per iscritto.
– A rigor di termini non e obbligatorio che si faccia a chi urla di piu – spiego lui. – Certo che sono Hicks. Lieto di conoscervi. Voi vi chiamate?
Mi porse la mano. La presi e la strinsi, ma non con l'aria di aver aspettato con ansia l'evento.
– Marlowe – dissi. – Philip Marlowe.
– Voi sapete qualcosa – dichiaro Hicks, educatamente. – Siete un maledetto bugiardo. Gli risi in faccia. – Non otterrete niente, con quelle arie da menimpipo. Con chi siete in contatto?
Trassi di tasca il portafogli e gli porsi un biglietto da visita dell'ufficio.
Lui lo lesse, con aria pensosa e lo batte, di spigolo, contro il dente di porcellana.
– Puo darsi che e andato da qualche parte senza dirmelo – osservo, in tono meditabondo.
– La vostra grammatica e scarsa, quasi quanto il vostro parrucchino – commentai.
– Non tirate in ballo il mio parrucchino, se non volete guai.
– Mica volevo mangiarlo – ribattei. – Non sono affamato fino a questo punto.
Hicks fece un passo verso di me, lasciando ricadere la spalla destra. Poi contrasse il viso, in una smorfia di collera, e lascio cadere anche il labbro inferiore.
– Inutile picchiarmi, sono assicurato – l'informai.
– Oh, all'inferno. Un altro suonato. – Si strinse nelle spalle e riporto il labbro in posizione normale. – Che cosa c'e sotto, infine?
– Devo trovare Orrin P. Quest.
– Perche?
Non risposi. Dopo un istante lui disse:
– E va be'. Anch'io sono un tipo prudente. Per questo sto traslocando.
– Forse non vi garba l'odore della marijuana.
– Questo ed altro – fece Hicks, con aria vaga. – Ed e la ragione per cui Quest se ne e andato. Un tipo rispettabile. Come me. Credo che un paio di ragazzi "duri" gli abbiano fatto prendere uno spago.
– Capisco – affermai. – Questo spiegherebbe perche non ha lasciato il suo nuovo indirizzo. E perche gli avrebbero fatto prendere uno spago?
– Avete accennato alla puzza della marijuana, vero? Quest non era il tipo da andare a lamentarsi al commissariato, per una cosa del genere?
– A Bay City? E perche avrebbe dovuto? Be', grazie mille, signor Hicks. Andate lontano?
– No. Non molto lontano. Quel tanto che basta.
– In che traffico avete le mani? – gli domandai.
– Traffico? – Hicks pareva offeso.
– Sicuro. Con che sistema fregate il prossimo? Come la tirate a casa, la "grana"?
– Vi siete sbagliato sul mio conto, figliolo. Sono un ottico in ritiro.
– Per questo tenete un'automatica calibro quarantacinque, la dentro? – domandai, indicando la valigia.
– Non c'e niente da dire per quella pistola – replico lui, acidamente.
– E in famiglia da anni. – Poso di nuovo lo sguardo sul mio biglietto da visita. – Investigatore privato, eh? – brontolo con aria pensosa. – Che tipo di lavoro svolgete, principalmente?
– Qualsiasi lavoro, pur che sia ragionevolmente onesto.
Hicks annui.
– "Ragionevole" e una parola discutibile. E cosi pure "onesto".
Gli lanciai un'occhiata di traverso, greve di malignita.
– Quanto avete ragione! – esclamai. – Vediamo di trovarci, un bel pomeriggio tranquillo e discutiamone. – Gli sfilai il mio biglietto da visita di tra le dita e me lo ficcai in tasca. – Grazie per l'intervista.
Uscii, chiusi la porta e rimasi in ascolto. Non so che cosa mi aspettassi di udire. Ma, fosse quel che fosse, non l'udii. Avevo la sensazione che l'altro fosse rimasto esattamente dove l'avevo lasciato, con gli occhi fissi sul punto in cui avevo pronunziato la mia battuta d'uscita. Percorsi il vestibolo con un certo rumore, e mi fermai in capo alle scale.
Una macchina si avvio davanti alla casa e si allontano. In un punto imprecisato una porta si chiuse. Mi diressi in punta di piedi alla camera numero quindici e mi servii del passe-partout per entrare. Poi richiusi a chiave, senza rumore, e rimasi in attesa, vicino al battente.
CAPITOLO V
Meno di due minuti dopo George W. Hicks se ne ando per i fatti suoi. Se ne ando cosi quietamente che non l'avrei udito, se non fossi stato in ascolto aspettando appunto quello. Udii il lieve suono metallico della maniglia che girava. Poi qualche passo lento. Poi l'uscio che si chiudeva, molto delicatamente. I passi si allontanarono. Udii, a distanza, lo scricchiolio delle scale. Poi piu nulla. Aspettai il suono della porta di strada. Non venne. Uscii dal numero quindici e percorsi il vestibolo, diretto nuovamente alle scale.
Dal piano inferiore venne il cigolio d'una porta che si apriva, con estrema prudenza. Guardai giu e vidi Hicks entrare nell'appartamento del direttore. L'uscio si richiuse alle sue spalle. Aspettai di udire delle voci. Niente.
Mi strinsi nelle spalle e tornai alla camera quindici. Sul comodino c'era una piccola radio, di sotto al letto disfatto spuntava un paio di pantofole; un vecchio accappatoio era appeso all'avvolgibile verde, pieno di spiragli, per parare il riverbero del sole.
Esaminai tutto questo come se significasse qualcosa, poi uscii sul pianerottolo e richiusi la porta col passe-partout. Dopo di che feci un altro pellegrinaggio alla camera quattordici. Ora la porta non era piu chiusa a chiave. Perquisii il locale con meticolosa attenzione e non trovai nulla che avesse a che vedere con Orrin P. Quest. Non m'aspettavo di trovarlo. Non vi era ragione perche dovessi trovarlo. Ma bisogna sempre guardare.
Scesi a pianterreno, ascoltai dietro la porta del direttore e non udii nulla.
Entrai e andai a deporre le chiavi sulla scrivania. Lester B. Clausen giaceva di fianco, sul divano, col viso rivolto al muro: morto per il mondo. Perquisii la scrivania, trovai un vecchio mastro che pareva riguardare gli affitti ricevuti e le spese fatte e nient'altro. Sfogliai di nuovo il registro degli ospiti. Non era aggiornato ma il tipo che dormiva sul divano bastava a spiegare questa negligenza. Orrin P. Quest se ne era andato. Un'altra persona aveva occupato la stanza registrata a nome di Hicks. L'ometto che contava il danaro in cucina si intonava magnificamente col quartiere. Il fatto che girasse con una pistola e un pugnale in saccoccia era un'eccentricita mondana che non avrebbe causato alcun commento, in Idaho Street.
Presi la piccola guida telefonica di Bay City, che pendeva da un gancio, accanto alla scrivania. Pensavo che non sarebbe stato molto faticoso pescare l'individuo che si faceva chiamare "dottore" o "Vince" e aveva un numero di telefono che cominciava con uno-tre-cinque-sette-due. Innanzitutto sfogliai il registro degli ospiti. Una cosa che avrei dovuto fare prima. La pagina con la registrazione di Orrin P. Quest era stata strappata. Un tipo prudente, il signor George W. Hicks. Molto prudente.