Il pick-up non sembrava avere alcun problema di tenuta sopra il ghiaccio scuro che copriva le strade. In ogni caso, guidavo molto lentamente, non mi andava di seminare distruzione sfrecciando attraverso Main Street.
Giunta a scuola, e scesa dal mezzo, capii perché il viaggio era stato così semplice. Fui incuriosita da qualcosa di argentato e mi avvicinai al retro del pick-up - ancorandomi per bene alla carrozzeria - per controllare gli pneumatici. Erano avvolti da catenelle sottili, intrecciate a forma di rombo. Charlie si era alzato chissà a che ora per montarle. Sentii un nodo alla gola. Non ero abituata ad avere accanto qualcuno che si prendesse cura di me, e la cortesia silenziosa di Charlie mi colse di sorpresa.
Impalata accanto al faro posteriore del pick-up, mi sforzavo di ricacciare indietro l’ondata improvvisa di emozioni provocata dalle catene. Fu in quel momento che sentii un rumore strano.
Era un fischio acuto, una frenata, sempre più vicina e inquietante. Alzai gli occhi, sbigottita.
Vidi parecchie cose contemporaneamente. Non era un film, perciò niente rallentatore. Anzi, la vampata di adrenalina accelerò l’attività del mio cervello e mi trovai a recepire con chiarezza molti dettagli in un colpo solo.
Edward Cullen, a quattro auto di distanza da me, mi fissava terrorizzato. Il suo viso emergeva da un mare di altri volti, immobilizzati nella stessa maschera di terrore. Ma l’elemento più importante era il furgoncino blu scuro che sbandava, le ruote bloccate e stridenti, una trottola impazzita nel parcheggio ghiacciato. Stava per schiantarsi contro il retro del mio pickup, di fronte al quale c’ero io. Non ebbi nemmeno il tempo di chiudere gli occhi.
Un istante prima che potessi sentire il fragore del furgoncino che si accartocciava sul cassone del pick-up, qualcosa mi colpì, forte, ma il colpo non giunse da dove me lo aspettavo. Sbattei la testa contro il fondo stradale ghiacciato e sentii qualcosa di duro e freddo che mi teneva giù. Ero sdraiata sull’asfalto, dietro l’auto scura accanto alla quale avevo parcheggiato. Non potevo scorgere altro, perché la corsa del furgoncino non era ancora finita. Aveva strusciato girandosi contro la coda del mio mezzo con una derapata, continuando a slittare in testacoda, e stava per investirmi di nuovo.
Sentii mormorare un’imprecazione e mi accorsi che accanto a me c’era qualcuno, una voce inconfondibile. Due mani affusolate e bianche mi si pararono di fronte per proteggermi, e il furgone si arrestò di colpo a una spanna dal mio volto. Le grandi mani erano affondate nella carrozzeria, dentro una provvidenziale, profonda ammaccatura del furgone.
Poi agirono così velocemente da diventare invisibili. Una fece presa in un istante sotto il furgoncino, e qualcosa mi trascinò, inerme come una bambola, girandomi per le gambe e facendomele sbattere contro una ruota dell’auto scura. Fui assordata da un lancinante rumore metallico, e il furgoncino, con il vetro sbriciolato, si piantò sull’asfalto, esattamente nel punto in cui, fino a un secondo prima, si trovavano le mie gambe.
Per un interminabile istante il silenzio fu assoluto, poi iniziarono le urla. In quel pandemonio, sentivo gridare il mio nome dappertutto. Ma nitida in mezzo al frastuono, vicina al mio orecchio, udii la voce bassa e affannata di Edward Cullen.
«Bella? Tutto a posto?».
«Sto bene». La mia voce suonava strana. Cercai di sedermi, e mi accorsi che mi teneva stretta contro il suo fianco, con una presa ferrea.
«Attenta», mi avvertì, mentre cercavo di liberarmi. «Mi sa che hai preso una bella botta in testa».
In quel momento mi accorsi della dolorosa pulsazione sopra l’orecchio sinistro.
«Ahi», dissi, sorpresa.
«Come pensavo». Incredibilmente, sembrava che stesse trattenendo una risata.
«Come diavolo...». Mi ritrassi da lui, per tentare di schiarirmi le idee e riprendere il contegno. «Come hai fatto ad arrivare così in fretta?».
«Ero qui accanto a te, Bella», rispose lui, serio.
Cercai di sedermi, e mi lasciò fare, mollando la presa attorno alla mia vita e allontanandomi quanto poteva, nello spazio angusto tra l’auto e il furgone. Osservai la sua espressione preoccupata, innocente, e per l’ennesima volta fui disorientata dall’intensità dei suoi occhi dorati. Cosa gli stavo chiedendo?
Infine ci trovarono, una folla di persone con le lacrime agli occhi, che urlavano verso di noi e si urlavano a vicenda.
«Non muovetevi», ci ingiunse qualcuno.
«Tirate fuori Tyler dal furgone!», gridò qualcun altro. Il movimento attorno a noi era frenetico. Cercai di alzarmi, ma la mano fredda di Edward mi tenne per una spalla e mi ricacciò giù.
«Per adesso resta qui».
«Ma fa freddo!», mi lagnai. Fui sorpresa nel sentirlo sogghignare. Suonava sarcastico.
«Tu stavi laggiù», ricordai all’improvviso, e la sua risatina si interruppe. «Eri accanto alla tua macchina».
Il suo volto si indurì. «Invece no».
«Ti ho visto». Attorno a noi c’era il caos. Sentivo le voci più roche degli adulti giungere sul luogo dell’incidente. Eppure mi ostinai a non lasciar cadere il discorso: avevo ragione io, e l’avrei costretto ad ammetterlo.
«Bella, ero qui accanto a te e ti ho spinta via appena in tempo». Scatenò tutta la potenza devastante del suo sguardo, come se volesse comunicarmi qualcosa di fondamentale.
«Invece no».
L’oro dei suoi occhi era fiammeggiante. «Per favore, Bella».
«Perché?».
«Fidati», mi pregò lui, sopraffacendomi con la sua voce dolce.
Ora si sentivano anche le sirene.
«Prometti che poi mi spiegherai tutto?».
«Promesso», concluse lui, esasperato.
«Promesso», ribadii, arrabbiata.
Ci vollero sei infermieri e due insegnanti - Varner di trigonometria e Clapp di ginnastica - per spostare il furgoncino abbastanza da far passare le barelle fino a noi. Edward rifiutò con decisione di salirci, io tentai di imitarlo, ma il traditore disse loro che avevo battuto la testa e che potevo aver subito una commozione cerebrale. Quasi morii di umiliazione, quando mi fecero indossare il collarino. Sembrava che tutta la scuola si fosse radunata lì per osservarmi, senza fare una piega, mentre mi caricavano sull’ambulanza. Edward si sedette davanti, al posto del passeggero. La situazione era pazzesca.
Tanto per peggiorare le cose, prima che l’ambulanza partisse arrivò anche l’ispettore capo Swan.
«Bella!», urlò, preso dal panico, quando mi riconobbe sdraiata sulla barella.
«Sto benissimo, Char... papà», sospirai io. «Niente di rotto».
Chiese conferma all’infermiere più vicino. Non facevo più caso a lui, ripensavo alle immagini inspiegabili che mi ribollivano caoticamente nella testa. Quando mi avevano sollevata e allontanata dall’auto, avevo visto l’ammaccatura profonda sul paraurti del furgoncino: un’impronta molto definita che combaciava con il profilo delle spalle di Edward... come se si fosse lanciato lui contro il mezzo, con tanta violenza da danneggiare la sbarra di metallo.
Poi vidi i suoi fratelli che osservavano la scena da lontano: alcuni sembravano infuriati, altri scuotevano il capo, ma nessuno di loro sembrava minimamente preoccupato per la salute del fratello.
Cercavo una spiegazione logica per ciò che avevo appena visto, una soluzione con cui convincermi di non essere pazza.
Ovviamente, l’ambulanza fu scortata dalla polizia lungo il tragitto verso l’ospedale. Mentre mi scaricavano, mi sentii ridicola dal primo all’ultimo istante. Edward, invece, semplicemente si dileguò oltre l’entrata dell’ospedale con le proprie forze. Io digrignavo i denti dalla rabbia.
Mi ricoverarono nella lunga corsia del pronto soccorso, con tanti letti in fila separati da tendine color pastello. Un’infermiera mi misurò la pressione e la febbre. Dato che nessuno si era preoccupato di abbassare la mia tendina per concedermi un po’ di privacy, decisi che non ero obbligata a indossare il collarino come una stupida. Appena l’infermiera si fu allontanata, strappai il velcro e gettai l’arnese sotto il letto.