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Ricominciò il viavai di infermieri, che sistemarono un altro ferito nel letto accanto al mio. Riconobbi Tyler Crowley, del mio stesso corso di educazione civica, nonostante la stretta fasciatura sporca di sangue che gli avvolgeva la testa. Stava cento volte peggio di me. Ma mi fissava, ansioso.

«Bella, non sai quanto mi dispiace!».

«È tutto a posto, Tyler. Tu sembri davvero malridotto, sicuro di star bene?». Mentre parlavamo, le infermiere cominciarono a sciogliergli il bendaggio, scoprendo una miriade di escoriazioni sulla fronte e sulla guancia sinistra.

Non rispose. «Ho avuto paura di ucciderti! Andavo troppo veloce, e ho preso una lastra di ghiaccio...». Fece una smorfia di dolore, quando rinfermiera iniziò a strofinargli la faccia.

«Non preoccuparti, mi hai mancata».

«Come hai fatto a spostarti così in fretta? Ti ho vista, e un istante dopo eri sparita...».

«Ehm... è stato Edward a spingermi via».

Sembrava stupito. «Chi?».

«Edward Cullen. Era lì accanto a me». Mentire non era mai stata la mia specialità: non ero stata affatto convincente.

«Cullen? Non l’ho visto... Dio, forse perché è successo tutto talmente in fretta. Lui sta bene?».

«Penso di sì. È qui anche lui, non so dove. Ma non l’hanno nemmeno portato in barella».

Ero sicura di non essere pazza. Cos’era successo? Spiegare quel che avevo visto era letteralmente impossibile.

Mi sistemarono su una sedia a rotelle e mi portarono via per farmi una radiografia alla testa. Insistevo a dire che non c’era niente di rotto, e avevo ragione. Nemmeno una piccola commozione. Chiesi di andarmene subito, ma l’infermiera rispose che prima dovevo parlare con un dottore. Perciò, eccomi imprigionata dentro il pronto soccorso, impaziente, assillata dalle continue scuse di Tyler e dalle sue promesse di risarcimento. Non c’era verso: malgrado i miei continui tentativi di convincerlo che stavo bene, si tormentava da solo. Alla fine chiusi gli occhi e lo ignorai. Lui continuava a borbottare in preda al rimorso.

«Dorme?», chiese una voce melodiosa. Aprii immediatamente gli occhi.

Ai piedi del mio letto c’era Edward, l’ombra di un sorriso sulle labbra. Lo fulminai. Non fu facile, il primo impulso era di fargli gli occhi dolci.

«Ehi, Edward, mi dispiace tanto...», attaccò Tyler.

Edward lo mise a tacere con un gesto.

«Niente sangue, niente danno», rispose, mostrando un sorriso smagliante. Si mise a sedere sul bordo del letto di Tyler, voltato verso di me. Ancora quel sorriso furbesco.

«Allora, qual è il verdetto?», chiese.

«Non mi sono fatta neanche un graffio, ma non vogliono lasciarmi tornare a casa», risposi io. «Com’è che tu non sei legato a una barella come noi?».

«Tutto merito di chi sai tu», rispose. «Ma non preoccuparti, sono venuto a liberarti».

Poi sbucò un dottore, e rimasi a bocca aperta. Era giovane, era biondo... ed era più bello di qualsiasi divo del cinema. Però era pallido, con l’aria stanca e le occhiaie marcate. A giudicare dalla descrizione di Charlie, doveva trattarsi del padre di Edward.

«E allora, signorina Swan», disse il dottor Cullen con un tono di voce decisamente attraente, «come stiamo?».

«Bene». Sperai di non doverlo ripetere più.

Accese il pannello luminoso sul muro sopra la mia testa.

«Le radiografie sono buone», disse. «Ti fa male la testa? Edward dice che hai preso un brutto colpo».

«Sto bene», ribadii con un sospiro, lanciando un’occhiataccia verso Edward.

Le dita fredde del dottore mi massaggiavano piano il cranio. Quando sobbalzai lui se ne accorse.

«Sensibile?», chiese.

«No, davvero». Sarebbe stato peggio.

Senti sogghignare, e alzai gli occhi verso il sorriso malizioso di Edward. Lo fulminai.

«Bene, tuo padre è in sala d’attesa, puoi farti riaccompagnare a casa. Se hai capogiri o problemi di vista, però, torna subito».

«Posso andare a scuola?», chiesi, immaginando di dover subire le attenzioni di Charlie.

«Forse per oggi dovresti stare tranquilla».

Feci un cenno verso Edward. «Lui invece può tornare?».

«Qualcuno dovrà pur diffondere la notizia che siamo sopravvissuti, no?», rispose il ragazzo, compiaciuto.

«A dir la verità», lo corresse il dottor Cullen, «sembra che metà istituto sia in sala d’attesa».

«Oh, no», esclamai, nascondendomi il viso tra le mani.

Il dottor Cullen alzò le sopracciglia. «Vuoi restare?».

«No, no!», insistetti, balzando giù dal letto alla svelta. Troppo alla svelta: inciampai, e il dottor Cullen mi afferrrò. Parve preoccupato.

«Sto bene», lo rassicurai. Era inutile informarlo che i miei problemi di equilibrio non avevano nulla a che fare con la botta in testa.

«Prendi dell’aspirina contro il dolore», suggerì, mentre mi aiutava ad alzarmi.

«Non fa così male».

«A quanto pare sei stata davvero molto fortunata», disse il dottor Cullen, sorridendo, mentre firmava le mie carte con uno svolazzo.

«Fortunata perché Edward si trovava lì accanto a me», aggiunsi, con un’occhiata fredda all’interessato.

«Oh certo, sì», concordò il padre, improvvisamente concentrato sui moduli che aveva davanti. Poi si rivolse altrove, diede un’occhiata a Tyler e si avvicinò al suo letto. Era un indizio preciso: il dottore la sapeva lunga.

«Purtroppo, tu dovrai restare qui un po’ più a lungo», disse a Tyler, e iniziò a controllare i suoi tagli.

Appena il dottore ebbe girato le spalle, mi accostai a Edward.

«Hai un minuto? Ho bisogno di parlarti». Lui fece un passo indietro, irrigidendo il volto.

«Tuo padre ti aspetta», disse tra i denti.

Io lanciai uno sguardo verso il dottor Cullen e Tyler.

«Vorrei parlare con te, da soli, se non è un problema», incalzai.

Allargò le braccia, poi mi voltò le spalle e si diresse con lunghe falcate dall’altra parte dello stanzone. Quasi mi toccava correre per tenere il suo passo. Non appena girammo l’angolo che dava su un breve corridoio, si volse verso di me.

«Cosa vuoi?», chiese, con tono irritato. Lo sguardo era freddo.

Quell’aria ostile mi intimidiva. Parlai con molta meno decisione di quanto desiderassi. «Mi devi una spiegazione», gli ricordai.

«Ti ho salvato la vita. Non ti devo niente».

Arretrai davanti al risentimento che trapelava dalla sua voce. «L’hai promesso».

«Bella, hai battuto la testa, non sai quello che dici». Mi stava provocando.

A quel punto persi le staffe, e gli lanciai un’occhiata spavalda. «La mia testa non ha un graffio».

Lui mi restituì l’occhiata. «Cosa vuoi da me, Bella?».

«Voglio la verità. Voglio sapere perché ti sto coprendo».

«Secondo te, cos’è successo?», sbottò lui.

Non riuscii a trattenermi.

«Quello che so è che eri tutt’altro che vicino a me. Neanche Tyler ti ha visto, perciò non dirmi che ho battuto la testa. Quel furgoncino stava per schiacciarci entrambi, invece non l’ha fatto, e con le mani hai lasciato un’ammaccatura sulla fiancata sinistra - e hai lasciato un bozzo anche sull’altra auto, senza farti niente - e il furgone stava per spaccarmi le gambe, ma l’hai alzato e trattenuto...». Mi resi conto di quanto suonasse assurdo, e non riuscii a continuare. Ero talmente infuriata che ero sul punto di piangere; serrai i denti per lo sforzo di trattenere le lacrime.

Lui mi fissava, incredulo e rigido. Stava sulla difensiva.

«Pensi che abbia sollevato un furgoncino per salvarti?». Il tono di voce voleva mettere in dubbio che fossi sana di mente, ma non fece altro che insospettirmi di più. Sembrava una battuta recitata alla perfezione da un attore esperto.

Mi limitai ad annuire, a denti stretti.

«Non ci crederà nessuno, lo sai». Adesso pareva che volesse deridermi.

«Non lo dirò a nessuno». Controllai la rabbia e pronunciai ogni parola lentamente.

Sembrò ancora più sorpreso. «E allora, che importa?».