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Jessica mi ricordò che all’orizzonte c’era un altro evento che incombeva su di me. Il primo martedì di marzo mi telefonò per chiedermi il permesso di invitare Mike al ballo di primavera, che si sarebbe tenuto due settimane dopo.

«Sei sicura che non sia un problema... non pensavi di invitarlo tu?», insistette, nonostante le avessi già detto che non ne avevo la minima intenzione.

«No, Jess, io non ci vengo proprio», la rassicurai. Ballare era molto, molto al di là delle mie capacità.

«Ci sarà da divertirsi». Il suo tentativo di convincermi suonava scarsamente entusiasta. Avevo il sospetto che a Jessica piacesse più la mia incomprensibile popolarità che la mia compagnia.

«Ti divertirai, con Mike», cercai di incoraggiarla.

Il giorno dopo, durante trigonometria e spagnolo, mi accorsi con sorpresa che Jessica non era frizzante come al solito. Tra una lezione e l’altra mi camminava al fianco in silenzio, e io esitavo a chiederle perché. Ammesso che Mike avesse rifiutato l’invito, io sarei stata l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto dirlo.

I miei timori si rafforzarono a pranzo, quando Jessica si sedette il più lontano possibile da Mike e prese a chiacchierare vivacemente con Eric. Mike restò stranamente in silenzio.

Silenzio che continuò anche lungo il tragitto che ci portava entrambi all’aula di biologia, e l’aria incerta nei suoi occhi era un cattivo segno. Ma non affrontò l’argomento finché non mi accomodai al mio posto. Lui si appollaiò sul banco. Come al solito, sentivo nell’aria la presènza elettrica di Edward, seduto tanto vicino da poterlo toccare, ma anche tanto lontano da apparire un prodotto della mia immaginazione.

«Insomma...», disse Mike, guardando il pavimento, «Jessica mi ha invitato al ballo di primavera».

«Grande». Diedi alla mia voce un tono allegro ed entusiasta. «Te la spasserai davvero, con lei».

«Be’...», balbettò studiando il mio sorriso, evidentemente scontento della mia reazione, «le ho detto che volevo pensarci».

«E perché l’avresti fatto?». Lasciai trapelare il mio disappunto, ma ero contenta che non le avesse rifilato un “no” definitivo.

Tornò a fissare il pavimento e arrossì. La pena che mi faceva mi tolse un po’ di determinazione.

«Mi chiedevo se... be’, non avessi intenzione di invitarmi tu».

Rimasi in silenzio un istante, disgustata dall’ondata di senso di colpa che m’investiva dentro. Con la coda dell’occhio, però, notai la testa di Edward voltarsi automaticamente verso di me.

«Mike, credo che dovresti accettare l’invito di Jessica».

«L’hai già chiesto a qualcun altro?». Chissà se Edward si era accorto che Mike stava guardando proprio lui.

«No, figuriamoci. Non ci vengo, al ballo».

«Perché no?», chiese Mike.

Non volevo rischiare l’osso del collo danzando, perciò mi ero prontamente organizzata.

«Quel sabato vado a Seattle», chiarii. Avevo già progettato una gita fuori città - ne avevo assoluto bisogno - e quella era un’occasione perfetta per farla.

«Non puoi rimandare a un altro fine settimana?».

«No, mi dispiace», risposi. «Perciò non fare aspettare Jess: è scortese».

«Va bene, hai ragione», mormorò, e tornò al suo posto, a capo chino. Io chiusi gli occhi e mi premetti le tempie, cercando di rimuovere il senso di colpa e il dispiacere per Mike. Il professor Banner aveva iniziato a parlare. Sospirai e riaprii gli occhi.

E trovai Edward che mi fissava, curioso, gli occhi scuri di nuovo venati da quel consueto filo di frustrazione, più evidente che mai.

Anch’io lo fissai, sorpresa, sicura che avrebbe abbassato lo sguardo. Invece continuò a scrutarmi dentro, sempre più intensamente. Non ero disposta a cedere. Mi tremavano le mani.

«Cullen?», chiese il professore, in cerca della risposta a una domanda che non avevo sentito.

«Il ciclo di Krebs», rispose Edward, voltandosi, suo malgrado, per prestare attenzione al professor Banner.

Libera dal peso del suo sguardo, tornai al mio libro, cercando di ricomporrai. Codarda come sempre, mi coprii portandomi i capelli sulla spalla destra. Non riuscivo a credere all’ondata di sensazioni che mi era montata dentro, soltanto perché, per la prima volta in sei settimane, mi aveva degnata di uno sguardo. Non potevo permettergli di influenzarmi in quel modo. Ero patetica. Di più, era una cosa malsana.

Per il resto della lezione cercai con tutte le mie forze di non pensare a lui, o, visto che ciò era impossibile, almeno di non fargli capire che pensavo a lui. Quando finalmente la campanella suonò, nel raccogliere le mie cose gli diedi le spalle, immaginando che come al solito se ne sarebbe andato in un baleno.

«Bella?». La sua voce non avrebbe dovuto suonarmi così familiare, come se la conoscessi da una vita anziché da poche settimane.

Mi voltai lentamente, riluttante. Non volevo lasciarmi assalire dal sentimento che sicuramente mi avrebbe assalito ammirando il suo viso troppo perfetto. Quando infine lo guardai, avevo un’espressione preoccupata; la sua era illeggibile. Non disse nulla.

«Cosa? Hai deciso di rivolgermi la parola?», chiesi infine, con tono involontariamente petulante.

Le sue labbra si stesero, trattenendo a malapena un sorriso. «No, non proprio», ammise.

Chiusi gli occhi, inspirai a fondo dal naso e mi accorsi che iniziavo a digrignare i denti. Lui attendeva.

«E allora, Edward, che vuoi?», domandai, ancora a occhi chiusi, così era più facile parlargli senza perdere il filo.

«Mi dispiace». Sembrava sincero. «Sono molto maleducato, lo so. Ma è meglio così, davvero».

Aprii gli occhi. Aveva l’aria molto seria.

«Non capisco che vuoi dire», risposi, senza abbassare la guardia.

«È meglio se non diventiamo amici», chiarì. «Fidati».

Socchiusi gli occhi. Questa l’avevo già sentita.

«Peccato che tu non te ne sia reso conto prima», sibilai. «Non avresti avuto nulla di cui rimproverarti».

«Recriminarmi?». La parola, e la mia voce, l’avevano ovviamente colto di sorpresa. «Rimproverarmi di cosa?».

«Di non avere lasciato semplicemente che quello stupido furgone mi spiaccicasse».

Era sbigottito. Mi fissava, incredulo.

Quando si decise a rispondere, sembrava quasi impazzito. «Vuoi dire che pensi mi sia pentito di averti salvato la vita?».

«Non penso. Lo so».

«Tu non sai niente». Sì, era pazzo furioso.

Mi voltai, piena di sdegno, con la bocca serrata per non lasciarmi scappare tutte le accuse che avrei voluto rovesciargli addosso. Raccolsi i libri, mi alzai e andai verso la porta. Avrei desiderato uscire teatralmente dalla classe, impettita, ma ovviamente la punta del mio stivale incappò nello stipite e i libri mi caddero. Per un istante rimasi lì a chiedermi se fosse il caso di lasciarli dov’erano. Poi feci un sospiro e mi piegai a raccoglierli. Ed eccolo al mio fianco: li aveva già impilati uno sull’altro. Me li porse, serio e accigliato.

«Grazie», dissi, gelida.

Contraccambiò, gli occhi diventati due fessure: «Prego».

Mi rialzai di scatto, girai i tacchi e mi precipitai verso la palestra, senza guardare indietro.

La lezione di ginnastica fu dura. Dalla pallavolo eravamo passati alla pallacanestro. I miei compagni di squadra non mi passavano mai la palla - fin qui tutto bene - ma non facevo che cadere. Talvolta trascinavo qualche altro giocatore con me. Quel giorno andò peggio del solito, perché in testa avevo soltanto Edward. Cercavo di concentrarmi sui miei piedi, ma lui continuava a sgusciare tra i miei pensieri ogni volta che avevo bisogno di equilibrio.

La fine della lezione fu un sollievo. Raggiunsi il pick-up quasi di corsa: c’erano davvero troppe persone che non volevo incontrare. I danni al veicolo, dopo l’incidente, erano stati minimi. Avevo dovuto cambiare i fari posteriori, e se la verniciatura fosse stata più seria avrei dovuto metter mano anche a quella. Ai genitori di Tyler era toccato vendere quello che restava del furgoncino.