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Alzai la testa di scatto. Seguii lo sguardo di Jessica fino a Edward che, sotto i baffi, sorrideva da un tavolo vuoto, dalla parte opposta rispetto a quello che occupava di solito. Incrociato il mio sguardo, con un dito mi fece segno di raggiungerlo. Dato che rimanevo a fissarlo incredula, strizzò l’occhio.

«Ce l’ha con te?», chiese Jessica, in tono sospettoso e sprezzante.

«Forse ha bisogno d’aiuto per i compiti di biologia», mormorai per concederle il beneficio del dubbio. «Uhm, penso che mi toccherà andare a sentire cosa vuole».

Mentre mi allontanavo percepivo il suo sguardo addosso.

Arrivata al tavolo di Edward, rimasi impalata accanto alla sedia, in imbarazzo totale.

«Perché non mi fai compagnia, oggi?», chiese lui, con un sorriso.

Mi sedetti con un gesto meccanico, osservandolo circospetta. Non smetteva di sorridere. Difficile credere che un ragazzo così bello potesse essere vero. Temevo che sparisse all’improvviso in una nuvoletta di fumo e che dovessi svegliarmi.

Forse aspettava che aprissi bocca.

«Così è diverso», riuscii infine a sillabare.

«Be’...». Fece una pausa, e poi riprese di slancio a parlare. «Ho pensato che se proprio devo andare all’inferno, tanto vale andarci in grande stile».

Attesi che aggiungesse qualcosa di più sensato. I secondi passavano.

«Sai bene che non ho la più pallida idea di cosa tu stia dicendo».

«Certo che lo so». Sfoderò un altro sorriso e cambiò discorso. «Credo che i tuoi amici siano arrabbiati con me perché ti ho rapita».

«Sopravvivranno». Sentivo ancora i loro sguardi che mi perforavano la schiena.

«Non è detto che ti restituisca, però», disse lui, con una luce maliziosa negli occhi.

Io deglutii.

Rise. «Sembri preoccupata».

«No», risposi balbettando. «Più che altro, sorpresa... a cosa devo tutto questo?».

«Te l’ho detto, sono stanco di sforzarmi di starti lontano. Perciò, ci rinuncio». Sorrideva ancora, i suoi occhi ocra però si erano fatti seri.

«Rinunci?», ripetei io, confusa.

«Si, rinuncio a sforzarmi di fare il bravo. D’ora in poi farò solo ciò che mi va e mi prenderò quel che viene». Il sorriso svanì e nella sua voce c’era una punta di durezza.

«Mi sono persa un’altra volta».

Riecco il sorriso sghembo mozzafiato.

«Quando parlo con te mi lascio sempre scappare troppe cose. Questo è uno dei problemi».

«Non preoccuparti, tanto non ne capisco una», dissi io, con una smorfia.

«Ci conto».

«La traduzione di tutto questo è che adesso siamo amici?».

«Amici...», bofonchiò lui, scettico.

«Oppure no», borbottai io.

Fece un ghigno. «Be’, immagino che possiamo provarci. Ma ti avviso da subito che non sarò un buon amico, per te». Dietro il sorriso, l’avvertimento suonava serio.

«Continui a ripeterlo». Cercai di ignorare l’improvviso sussulto nel mio stomaco e di parlare senza balbettare.

«Sì, perché tu non mi dai ascolto. Sto ancora aspettando che tu ci creda. Se sai quello che fai, cercherai di evitarmi».

«A quanto pare ti sei fatto un’opinione piuttosto precisa della mia intelligenza». Ridussi gli occhi a una fessura.

Sorrise, come per scusarsi.

«Perciò, dato che per ora non so quello che faccio, possiamo provare a essere amici?». Mi sforzai di tirare le somme di quella conversazione ingarbugliata.

«Mi sembra una proposta sensata».

Fissavo le mie mani che stringevano la bottiglietta di limonata, non sapevo che fare.

«Cosa pensi?», chiese lui, curioso.

Levai lo sguardo verso i suoi occhi dorati, così intensi da darmi le vertigini, e come al solito sputai la verità.

«Sto cercando di capire cosa sei».

Lui ebbe un sussulto, ma si sforzò di sorridere.

«E hai fatto qualche passo avanti?», chiese, disinvolto.

«Non molti», ammisi io.

Rise sotto i baffi. «Hai una teoria?».

Arrossii. Nel mese precedente avevo oscillato tra Bruce Wayne e Peter Parker. Confessare una cosa del genere era fuori discussione.

«Non me la vuoi dire?», chiese lui, inclinando il capo e illuminandosi di un sorriso tentatore da infarto.

Feci cenno di no. «Troppo imbarazzante».

«È una grossa frustrazione, lo sai».

«No», ribattei subito io, squadrandolo. «Non riesco proprio a immaginare cosa ci sia di frustrante nel fatto che qualcuno si rifiuti di dirti cosa pensa e nel frattempo faccia anche piccole osservazioni criptiche proprio per toglierti il sonno quando ti sforzi di interpretarle... Cosa ci sarà mai di frustrante in tutto questo?».

Fece una smorfia.

«Oppure», continuai io, lasciando che tutto il nervosismo accumulato si sciogliesse, «ammettiamo che questo qualcuno abbia anche fatto una serie di gesti strani - dal salvarti la vita in circostanze incredibili un giorno al trattarti come un’emarginata il giorno dopo - senza mai spiegare il suo comportamento, mai, malgrado avesse promesso di farlo. Anche questo sarebbe estremamente non frustrante?».

«Sbaglio o sei un po’ in collera?».

«Non mi piace il “due pesi e due misure”».

Ci guardavamo negli occhi senza sorridere.

Lui lanciò un’occhiata alle mie spalle e, a sorpresa, accennò una risata.

«Che c’è?».

«Il tuo amichetto è convinto che io sia scortese con te: sta decidendo se venire o no a interrompere il litigio». Ridacchiava.

«Non so di chi stai parlando», risposi, dura. «Ma sono sicura che ti sbagli».

«Invece no. Te l’ho detto, di solito sono bravo a leggere le persone».

«A parte me, ovviamente».

«Sì, a parte te». Il suo umore cambiò all’improvviso, l’espressione si fece pensosa. «Chissà perché».

Di nuovo fui costretta a distogliere lo sguardo dal suo, troppo intenso. Mi concentrai sul tappo della limonata, cercando di svitarlo. La sorseggiai, mentre fissavo il tavolo senza vederlo.

«Non hai fame?», chiese lui, distrattamente.

«No». Non mi andava di dirgli che ero a stomaco pieno... di farfalle. «E tu?». Lanciai un’occhiata al tavolo vuoto.

«No, non ho fame». Non riuscii a interpretare la sua espressione: sembrava stesse ridendo di una battuta che non potevo capire.

«Mi faresti un favore?», chiesi dopo un secondo di esitazione.

Subito si fece guardingo. «Dipende da cosa vuoi».

«Non è granché», lo rassicurai.

Restò in attesa, sospettoso ma incuriosito.

«Mi chiedevo... se ti andrebbe di farmelo sapere, la prossima volta che decidi di ignorarmi per il mio bene. Così mi posso preparare». Guardavo la bottiglia di limonata, sfiorando con il dito roseo il bordo del tappo.

«Mi sembra corretto», rispose. Rialzai lo sguardo e lo vidi serrare le labbra per soffocare una risata.

«Grazie».

«In cambio, posso avere una risposta?».

«Una sola».

«Spiegami una teoria».

Ops. «Quella no».

«Non hai specificato, mi hai solo promesso una risposta», puntualizzò.

«Tu sei ancora in debito di una promessa», ribattei io.

«Solo una teoria: giuro che non mi metto a ridere».

«Oh sì, lo farai». Di questo ero certa.

Abbassò lo sguardo; poi, da sotto le lunghe ciglia nere, lanciò un’occhiata dorata che mi trafisse.

«Per favore», sussurrò, avvicinandosi a me.

In un attimo la mia mente si svuotò. Santi numi, come diamine faceva?

«Ehm, cosa?». Ero frastornata.

«Per favore, raccontami solo una teoria, una piccola». I suoi occhi continuavano ad ardere.

«Ehm, dunque, sei stato punto da un ragno radioattivo?». Era anche un ipnotizzatore? Oppure ero io senza nerbo?

«Poco originale». Mi stava prendendo in giro.

«Scusa, ma di più non riesco a fare», risposi stizzita.

«Non ci siamo proprio».

«Niente ragni?».

«Nah».

«Niente radioattività?».

«Niente».

«Acci...».