«E la kriptonite non mi fa niente», ridacchiò lui.
«Alt, avevi detto che non avresti riso». Si sforzò di tornare serio.
«Prima o poi capirò», lo avvertii.
«Meglio che non ci provi». Era tornato serio.
«Perché?».
«E se non fossi il supereroe? Se fossi il cattivo?». Sorrise. Cercava di scherzare, ma il suo sguardo era impenetrabile.
«Oh», dissi, e mi parve che molte di quelle allusioni acquistassero improvvisamente senso. «Capisco».
«Davvero?». Il suo viso si fece improvvisamente severo, come per paura di essersi lasciato scappare una frase di troppo.
«Sei pericoloso?», chiesi, in preda al batticuore quando intuii il fondo di verità nella mia domanda. Sì, era pericoloso. Ecco cosa stava cercando di dirmi.
Si limitò a guardarmi, preso da una qualche emozione che non riuscivo a cogliere.
«Ma non cattivo», sussurrai, scuotendo il capo. «No, non posso credere che tu sia cattivo».
«Ti sbagli». La sua voce era quasi impercettibile. Guardò giù, rubò il tappo della bottiglietta e iniziò a giocherellarci. Lo fissavo e mi chiedevo perché non mi facesse paura. Diceva sul serio, era evidente. Eppure io mi sentivo solo inquieta, ansiosa... e affascinata, soprattutto. Lo stesso stato d’animo che la sua vicinanza mi aveva sempre scatenato.
Il silenzio proseguì finché non mi accorsi che la mensa era quasi vuota.
Scattai in piedi. «Arriveremo in ritardo».
«Oggi non vengo a lezione», disse lui, roteando il tappo così veloce da farlo quasi sparire.
«Perché no?».
«Saltare qualche lezione fa bene alla salute». Sorrideva, ma lo sguardo era ancora inquieto.
«Be’, io ci vado», risposi. Ero troppo codarda per rischiare di farmi scoprire.
Tornò a fissare il tavolo. «Allora ci vediamo più tardi».
Esitai per un istante, lacerata, ma allo squillo della campana corsi via. Gli gettai un’ultima occhiata dalla porta, e in effetti era ancora lì, immobile.
Mentre procedevo di buon passo verso l’aula, la testa mi girava più velocemente del tappo della bottiglia. La conversazione aveva prodotto pochissime risposte e troppe nuove domande.
Se non altro, aveva smesso di piovere.
Per fortuna, il professor Banner non era ancora arrivato. Mi accomodai alla svelta al mio posto, consapevole che Mike e Angela mi stavano osservando. Mike sembrava risentito, Angela era sorpresa, un po’ in soggezione.
Poi arrivò il professore e richiamò la classe all’ordine. Si destreggiava a fatica tenendo tra le braccia alcune scatolette di cartoncino. Le appoggiò sul tavolo di Mike e gli disse di passarle al resto della classe.
«Bene, ragazzi, ora prendete un oggetto da ogni scatola», disse, infilandosi un paio di guanti di gomma estratti dalla tasca del camice. Lo schiocco secco dei guanti attorno ai suoi polsi fu per me un cattivo presagio. «Il primo è un cartoncino di controllo», proseguì, mostrandoci un quadrato bianco diviso in quattro sezioni. «Il secondo è un applicatore a quattro aghi», mostrò un aggeggio che sembrava un pettine sdentato, «e il terzo è una lancetta sterile». Afferrò un oggetto di plastica blu e lo aprì in due. La punta era invisibile dalla distanza in cui stavo, ma mi fece comunque rivoltare lo stomaco.
«Farò il giro dei banchi con un contagocce per preparare i cartoncini, perciò, per favore, prima di iniziare aspettate me». Cominciò dal tavolo di Mike, lasciando cadere con attenzione una goccia d’acqua su ognuno dei quadrati del cartoncino. «Poi vi chiederò di pungervi un dito con la lancetta...», prese la mano di Mike e gli conficcò la punta sul polpastrello del dito medio. Oh no. La mia fronte si velò di sudore freddo.
«Sporcate con una gocciolina di sangue ciascuno degli aghi dell’applicatore». Continuò la dimostrazione stringendo il dito di Mike fino a fargli versare del sangue. Io deglutivo convulsamente, con lo stomaco sottosopra.
«Poi fate combaciare l’applicatore e il cartoncino», concluse, mostrandoci per bene il quadrato sporco di sangue. Chiusi gli occhi, cercando di ascoltarlo senza badare alle orecchie che mi fischiavano.
«La prossima settimana la Croce Rossa organizzerà una giornata di donazioni a Port Angeles, perciò mi sembrava utile farvi scoprire qual è il vostro gruppo sanguigno». Sembrava orgoglioso di sé. «Ai minori di diciotto anni serve il consenso dei genitori: i moduli sono sulla cattedra».
Continuò il giro della classe, con il contagocce in mano. Io appoggiai la guancia al piano freddo e nero del tavolo, sforzandomi di non svenire. Sentivo il pigolio, le lamentele e le risatine dei miei compagni di classe che si pungevano le dita. Iniziai a respirare lentamente, con la bocca.
«Bella, stai bene?», chiese il professor Banner. Sentivo la sua voce molto vicina, e sembrava allarmata.
«Conosco già il mio gruppo sanguigno, professore». Risposi con un sussurro. Avevo paura di alzare la testa.
«Ti senti debole?».
«Sì, signore», mormorai, prendendomela con me stessa per non aver saltato la lezione.
«Qualcuno può portare Bella in infermeria, per favore?».
Anche senza sollevare il capo sapevo che il volontario sarebbe stato Mike.
«Riesci a camminare?», chiese il professor Banner.
«Sì», sussurrai. Fatemi solo uscire di qui, anche strisciando, pensavo.
Sembrava che Mike non vedesse l’ora di mettermi un braccio attorno alla vita e di tenermi stretta a sé. Mi appoggiai a lui di peso e mi lasciai trascinare fuori dall’aula.
Mike mi guidò lentamente attraverso il campus. Nei dintorni della mensa, lontana dall’edificio 4 e perciò dallo sguardo del professor Banner, mi fermai.
«Posso sedermi un minuto?», lo implorai.
Mi aiutò ad accomodarmi sul ciglio del sentiero.
«Non togliere la mano dalla tasca, per nessuna ragione al mondo», lo avvertii. Ero ancora sconvolta. Mi accasciai a terra, su un fianco, con la guancia contro il cemento ghiacciato e umido del marciapiede, a occhi chiusi. Così andava meglio.
«Caspita, sei diventata verde, Bella», disse Mike, nervoso.
«Bella?». Da lontano, qualcun altro mi chiamava.
No! Per carità, lasciatemi qui a immaginare quella voce terribilmente familiare.
«Cos’è successo, si è fatta male?». Ora la voce era più vicina, e sembrava turbata. Non la stavo immaginando. Mi sforzai di tenere gli occhi ben chiusi, speravo di morire. O perlomeno di non vomitare.
Mike sembrava teso. «Temo sia svenuta. Non so cos’è successo, non si è nemmeno punta il dito».
«Bella». La voce di Edward era proprio accanto a me, più sollevata ora. «Mi senti?».
«No», bofonchiai. «Vattene».
Rise.
«La stavo portando dall’infermiera», spiegò Mike, sulla difensiva, «ma si è intestardita a rimanere qui».
«La porto io», disse Edward. Capivo dal suo tono di voce che stava ancora sorridendo. «Tu torna pure in classe».
«No», protestò Mike. «È compito mio».
All’improvviso non sentivo più il marciapiede sotto di me. Aprii gli occhi, per la sorpresa. Edward mi aveva presa tra le braccia di slancio, come se pesassi cinque chili, e non cinquantacinque.
«Rimettimi giù!». Oddio, ti prego, ti prego fa’ che non gli vomiti addosso. Non avevo fatto in tempo ad aprir bocca che era già in marcia.
«Ehi!», esclamò Mike, già dieci passi dietro di noi.
Edward lo ignorò. «Sei conciata proprio male», mi disse, con un ghigno.
«Rimettimi sul marciapiede!», protestai, lamentosa. Il movimento ondeggiante della sua camminata non mi aiutava affatto. Mi allontanò da sé con delicatezza, sollevandomi soltanto con le braccia; non sembrava gli facesse molta differenza.
«Perciò la vista del sangue ti fa perdere i sensi?», chiese. Sembrava divertito.
Non risposi. Chiusi di nuovo gli occhi e combattei con tutte le mie forze contro la nausea, a denti stretti.
«E dire che non era nemmeno tuo», proseguì, senza perdere il buonumore.
Non so come riuscì ad aprire la porta tenendomi sollevata, ma all’improvviso sentii caldo e capii che eravamo al coperto.
«Oh, cielo», esclamò una voce femminile.