«È svenuta durante biologia», spiegò Edward.
Aprii gli occhi. Eravamo in segreteria, Edward avanzava a grandi passi lungo il bancone all’entrata, verso la porta dell’infermeria. La signorina Cope, la rossa che stava all’ingresso, la aprì precedendolo di corsa. L’infermiera, una specie di nonna premurosa, alzò gli occhi da un libro, meravigliata, mentre Edward mi portava di slancio nella stanza e mi adagiava delicatamente sul foglio di carta ruvida che copriva il materassino di vinile marrone dell’unica branda. Poi si spostò e rimase in piedi appoggiato al muro più lontano da me. Il suo sguardo era acceso, inquieto.
«Ha avuto un leggero mancamento», disse all’infermiera interdetta. «È reduce dalla lezione sui gruppi sanguigni».
L’infermiera annuì con aria saggia. «C’è sempre qualcuno che fa’ questa fine».
Lui soffocò una risata.
«Resta un po’ sdraiata, piccola, passerà».
«Lo so», sussurrai. La nausea stava già diminuendo.
«Ti succede spesso?».
«Ogni tanto», ammisi. Edward tossì per nascondere un’altra risata.
«Tu puoi tornare in classe», gli disse l’infermiera.
«Devo restare con lei». Pronunciò quelle parole con tanta solida autorevolezza da mettere a tacere la donna, che pure sembrava contrariata.
«Vado a prendere un po’ di ghiaccio da metterti sulla fronte, cara», mi disse lei, e uscì in fretta dalla stanza.
«Avevi ragione», farfugliai, con gli occhi ancora socchiusi.
«Certo, come al solito... ma a cosa ti riferisci adesso, di preciso?».
«Saltare le lezioni fa davvero bene alla salute». Cominciavo a respirare regolarmente.
«Per qualche minuto mi hai messo davvero paura», ammise lui dopo un breve silenzio. Dal tono di voce sembrava che stesse confessando una debolezza umiliante. «Pensavo che Mike Newton stesse trafugando il tuo cadavere per seppellirlo nel bosco».
«Divertente». Tenevo sempre gli occhi chiusi, ma con il passare dei minuti riacquistavo le forze.
«Seriamente... ho visto cadaveri con un colorito migliore. Ero preoccupato di dover vendicare il tuo omicidio».
«Povero Mike. Gli saranno saltati i nervi».
«Mi detesta con tutte le sue forze», disse Edward, allegro.
«Non puoi saperlo», ribattei io, ma d’un tratto non ne ero più così sicura.
«La sua espressione era inconfondibile».
«Come hai fatto a vedermi? Pensavo avessi marinato la scuola». A quel punto stavo già meglio, forse la debolezza mi sarebbe passata più alla svelta se a pranzo avessi mangiato qualcosa. D’altra parte, avere lo stomaco vuoto era stata una fortuna.
«Ero in macchina, ascoltavo un CD». Una risposta tanto normale da sorprendermi.
Udii la porta e aprii gli occhi. Vidi l’infermiera che stringeva un impacco freddo.
«Ecco qui, cara». Lo adagiò sulla mia fronte. «Mi sembra che vada meglio», aggiunse.
«Penso di sì», risposi, e mi alzai. Mi fischiavano ancora un po’ le orecchie, ma la testa non girava più. Le pareti verde chiaro restavano al loro posto.
L’infermiera era chiaramente intenzionata a farmi sdraiare di nuovo, ma a quel punto la porta si aprì e sbucò la testa della signorina Cope.
«Ce n’è un altro», annunciò.
Saltai giù dalla branda per fare posto al nuovo invalido.
Restituii l’impacco all’infermiera. «Tenga, non mi serve più».
A quel punto, dalla porta entrò Mike, barcollante, trascinandosi dietro un mio compagno di classe, Lee Stephens, giallo di nausea. Io ed Edward ci accostammo alla parete per fargli spazio.
«Oh no», borbottò Edward. «Esci, torna in segreteria, Bella».
Restai a guardarlo, sorpresa.
«Fidati: vai».
Schizzai via dall’ambulatorio prima che richiudessero la porta. Sentivo Edward subito dietro di me.
«Mi hai obbedito all’istante». Era meravigliato.
«Ho sentito odore di sangue», dissi, storcendo il naso. La nausea di Lee non nasceva dal guardare il sangue degli altri, come la mia.
«L’odore del sangue non si sente», mi contraddisse lui.
«Be’, io Io sento, ecco perché mi viene la nausea. Sa di ruggine... e di sale».
Mi fissava con un’espressione indecifrabile.
«Che c’è?», chiesi.
«Niente».
A quel punto dalla porta uscì anche Mike, che squadrò prima me e poi Edward. Aveva ragione: Mike lo detestava, glielo si leggeva negli occhi. Poi si rivolse di nuovo a me, con uno sguardo triste.
«Sembra che tu stia meglio», mi accusò.
«Basta che tu tenga la mano in tasca», lo avvertii di nuovo.
«Non sanguina più», borbottò lui. «Rientri in classe?».
«Scherzi? Dovrei fare dietrofront appena arrivata per tornarmene qui».
«Be’, immagino... Allora vieni, questo fine settimana? Alla spiaggia?». Mentre parlava lanciò un’altra occhiataccia a Edward, che se ne stava dritto accanto al bancone ingombro di carte, immobile come una statua, con lo sguardo perso nel vuoto.
Cercai di risultare il più possibile ben disposta. «Certo, ho già detto che ci sarò».
«Appuntamento al negozio di mio padre alle dieci». Lanciò un’occhiata verso Edward, badando a non lasciarsi sfuggire troppe informazioni. I suoi gesti sottintendevano che l’invito era riservato.
«Ci sarò».
«D’accordo. Ci vediamo in palestra», disse, e si diresse con passo incerto verso la porta.
«Ci vediamo», risposi. Mi rivolse un ultimo sguardo, con un’espressione imbronciata sul viso rotondo, le spalle cadenti. Fui presa da un’ondata di compassione. Pensavo che mi sarei ritrovata di fronte quell’espressione delusa... in palestra.
«No... ginnastica», bofonchiai.
«Me ne occupo io». Non mi ero accorta che Edward si era avvicinato, ma ora lo sentivo sussurrare al mio orecchio. «Siediti e impallidisci», mormorò.
Non era difficile: ero sempre pallida, e lo svenimento di poco prima mi aveva lasciato un leggero velo di sudore sul viso. Mi accomodai su una delle sedie pieghevoli cigolanti e abbandonai il capo contro la parete, chiudendo gli occhi. Gli svenimenti mi lasciavano sempre spossata.
Udii Edward parlare piano, al bancone.
«Signorina Cope?».
«Sì?». Non l’avevo sentita tornare alla scrivania.
«La prossima lezione di Bella è in palestra, e non credo si senta abbastanza bene. A dire la verità, credo sarebbe più opportuno che l’accompagnassi a casa. Potrebbe preparare una giustificazione per lei?». La sua voce era una cucchiaiata di miele. E immaginavo quanto stupefacenti dovessero essere i suoi occhi.
«Anche tu hai bisogno di una giustificazione, Edward?», cinguettò la signorina Cope. Perché io non ero capace di fare cose del genere?
«No, io ho la professoressa Goff. Per lei non sarà un problema».
«Bene, è tutto sistemato. Ti senti meglio, Bella?». Feci un debole cenno, fingendo quel tanto che bastava.
«Riesci a camminare o vuoi che ti porti ancora in braccio?». Dava le spalle alla segretaria e la sua espressione si fece sarcastica.
«Cammino».
Mi alzai con prudenza, in effetti stavo bene. Lui mi aprì la porta, con un sorriso gentile e uno sguardo ironico. Andai incontro alla nebbiolina sottile e fredda che aveva appena iniziato a scendere. Era una bella sensazione - per la prima volta mi gustavo l’umidità costante che veniva dal cielo - perché mi lavava il sudore appiccicoso dalla faccia.
«Grazie», dissi a Edward, che mi seguiva. «Pur di saltare ginnastica vale quasi la pena di ammalarsi».
«Quando vuoi». Guardava dritto di fronte a sé, strizzando gli occhi a causa della pioggia. «Allora, sei in partenza? Questo sabato, intendo».
Speravo che anche lui si unisse alla gita, per poco probabile che fosse. Non riuscivo a immaginarlo, in macchina con il resto dei miei compagni: non apparteneva a quel mondo. Eppure speravo che mi fornisse almeno un primo briciolo di entusiasmo per quel fine settimana.
«Dove andate, di preciso?». Il suo sguardo era ancora fisso e inespressivo.
«Giù a La Push, a First Beach». Studiai la sua espressione, nel tentativo di leggerla. Aggrottò impercettibilmente le sopracciglia.