Mi lanciò un’occhiata di sottecchi e sorrise a denti stretti. «Non mi sembra di essere stato invitato».
Feci un sospiro. «Ti sto invitando ora».
«Per questa settimana è meglio che io e te non esageriamo, con il povero Mike. Non è il caso di fargli saltare i nervi». I suoi occhi danzavano: l’idea lo divertiva più di quanto fosse lecito.
«Povero Mike», mormorai, preoccupata dal tono con cui aveva detto “io e te”. Mi piaceva più di quanto fosse lecito.
Eravamo arrivati dietro il parcheggio. Svoltai a sinistra, in direzione del pick-up. Qualcosa mi tirò per il giubbotto e mi trattenne.
«Dove pensi di andare?», chiese lui, indignato. Stringeva un lembo della mia giacca a vento.
Rimasi disorientata. «Vado a casa».
«Non hai sentito? Ho promesso di portarti a casa sana e salva. Pensi che ti lasci guidare in quelle condizioni?». Era ancora indignato.
«Quali condizioni? È il mio pick-up?», ribattei io.
«Te lo faccio riportare da Alice dopo la scuola». Ora mi trascinava verso la sua auto, senza mollare il mio giubbotto. L’unica alternativa sarebbe stata lasciarmi cadere all’indietro. Ma credo che non mi avrebbe mollata neanche stesa per terra.
«Mollami!». Non mi dava ascolto. Cercai di divincolarmi, ma lui mi fece andare barcollando lungo il marciapiede e mi lasciò libera soltanto davanti alla Volvo. A quel punto inciampai, sbattendo contro la portiera del passeggero.
«Quanto sei prepotente!».
«È aperta», fu la sua unica risposta. Si sedette al volante.
«Sono perfettamente in grado di guidare fino a casa!». Me ne stavo accanto all’auto, infuriata. La pioggia scendeva più forte, e non avendo alzato il cappuccio mi ritrovai i capelli e la schiena completamente zuppi.
Edward abbassò il finestrino elettrico e si sporse verso di me. «Sali, Bella».
Non rispondevo. Tra me e me stavo calcolando le possibilità di raggiungere il pick-up prima che potesse afferrarmi. Erano bassissime, dovevo ammetterlo.
«Tanto ti riprendo», minacciò lui, che aveva intuito tutto.
Cercai di mantenere un minimo di dignità, salendo sull’auto. Non ci riuscii granché, sembravo un gatto mezzo annegato, e i miei stivali facevano un rumore simile a uno squittio.
«Non ce n’è bisogno», dissi, irrigidita.
Non rispose. Armeggiava con le manopole sul cruscotto, alzò il riscaldamento e abbassò il volume della radio. Uscendo dal parcheggio, mi stavo proponendo di riservagli il trattamento mutismo, ero già in modalità imbronciata, quando a un tratto riconobbi la musica, e la curiosità ebbe la meglio sulle mie intenzioni.
«Claire de lune?», chiesi, sorpresa.
«Conosci Debussy?». Anche lui sembrava sorpreso.
«Non bene», precisai. «Mia madre ascolta sempre un sacco di musica classica in casa, io riconosco solo i miei preferiti».
«È anche uno dei miei preferiti». Guardava fuori, nella pioggia, perso nei suoi pensieri.
Ascoltavo la musica, rilassandomi contro il sedile di pelle grigio chiaro. Era impossibile non lasciarsi trasportare da quella melodia familiare e rassicurante. Fuori dal finestrino, la pioggia trasformava il panorama in una serie di macchie verdi e nere. Mi resi conto che stavamo andando molto veloci; eppure, l’auto procedeva con tale sicurezza e stabilità che non ne percepivo il movimento. Solo le luci della città svelavano l’inganno.
«Com’è tua madre?», chiese lui, di punto in bianco.
Sollevai lo sguardo e vidi che mi stava studiando con curiosità.
«Mi somiglia molto, ma è più carina», risposi. Mi guardò, incuriosito. «Io ho troppo in comune con Charlie. Lei è più estroversa di me, e più coraggiosa. Ed è una persona irresponsabile e piuttosto eccentrica, nonché cuoca imprevedibile. È la mia migliore amica». Mi fermai lì. Parlare di lei mi deprimeva.
«Quanti anni hai, Bella?». Sembrava abbattuto, ma non riuscivo a coglierne il motivo. Spense l’auto: eravamo già arrivati a casa di Charlie. La pioggia era talmente fitta che i contorni dell’edificio si vedevano a malapena. Era come se la macchina fosse stata travolta da un fiume.
«Diciassette», risposi, un po’ confusa.
«Non li dimostri».
Suonava come un rimprovero. Mi fece ridere.
«Che c’è?», chiese, curioso.
«Mia madre dice sempre che quando sono nata avevo già trentacinque anni e che ormai sono vicina alla mezza età». Mi lasciai andare a una risata, poi a un sospiro. «Be’, qualcuno dovrà pur fare la parte dell’adulto». Per un istante rimasi in silenzio. «Neanche tu hai tanto l’aria di uno studente del terzo anno», suggerii.
Lui fece una smorfia e cambiò discorso.
«Come mai tua madre ha sposato Phil?».
Mi sorprese che ricordasse ancora il suo nome: l’avevo citato una volta sola, quasi due mesi prima. Mi ci volle qualche istante prima di rispondere.
«Mia madre... si sente più giovane della sua età. Penso che Phil la faccia sentire ancora più giovane. E comunque, è pazza di lui». Scossi il capo. Quell’attrazione era un mistero, per me.
«Approvi?», chiese lui.
«Importa qualcosa? Voglio che sia felice... e lui è ciò che desidera».
«Mi sembra un atteggiamento come minimo... generoso», commentò lui.
«Cosa?».
«Pensi che si comporterebbe allo stesso modo con te? Su chiunque cadesse la tua scelta?». Il suo sguardo si era acceso all’improvviso e cercava il mio.
«P-penso di sì», balbettai. «Ma in fin dei conti, la mamma è lei. È un po’ diverso».
«Niente ragazzi spaventosi, quindi». Mi voleva stuzzicare.
Risposi con un sorriso. «Cosa intendi per “spaventosi”? Piercing facciali multipli e tatuaggi dappertutto?».
«Anche... Per esempio».
«E cos’altro, secondo te?».
Ma lui ignorò quella domanda e me ne rivolse un’altra: «Pensi che io potrei essere spaventoso?». Alzò un sopracciglio, e la debole traccia di un sorriso gli illuminò il viso.
Per un istante mi chiesi se fosse il caso di dire la verità o mentire. Optai per la verità. «Mmm... penso che potresti esserlo, se volessi».
«In questo momento hai paura di me?». Il sorriso scomparve e il suo volto angelico si fece serio.
«No». Ma risposi troppo in fretta. Riecco il sorriso.
«Adesso mi racconti tu qualcosa della tua famiglia?», cercai di sviare il discorso. «Senz’altro è una storia molto più interessante della mia».
Di colpo alzò la guardia. «Cosa vuoi sapere?».
«È vero che i Cullen ti hanno adottato?».
«Sì».
Esitai per un istante. «Cos’è successo ai tuoi genitori?».
«Sono morti parecchi anni fa». Il suo tono restò neutro.
«Mi dispiace», mormorai.
«Non ricordo granché di loro. Carlisle ed Esme sono i miei genitori da parecchio tempo».
«E gli vuoi bene». La mia non era una domanda. Era implicito nel modo in cui parlava di loro.
«Sì». Sorrise. «Non potrei immaginare due persone migliori».
«Sei molto fortunato».
«Lo so».
«E i tuoi fratelli?».
Lanciò un’occhiata all’orologio del cruscotto.
«Mio fratello e mia sorella, oltre a Jasper e Rosalie, si innervosiranno parecchio se gli toccherà aspettarmi sotto la pioggia».
«Oh, scusa, immagino che tu sia in ritardo». Non volevo scendere.
«E immagino che tu rivoglia indietro il tuo pick-up prima che l’ispettore Swan torni a casa, così non dovrai dirgli dell’incidente di biologia». Mi rivolse un gran sorriso.
«Di sicuro sa già tutto. A Forks non ci sono segreti». Feci un sospiro.
Lui rise, ma non sembrava rilassato.
«Divertiti, alla spiaggia... c’è il tempo giusto per prendere il sole». E guardò fuori la pioggia scrosciante.
«Domani non ci vediamo?».
«No. Io ed Emmett anticipiamo il weekend».
«Cosa fate?». Un’amica poteva permettersi una domanda del genere, no? Sperai che nella mia voce non si scorgesse la delusione.