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«Tu sei Isabella Swan, vero?».

Mi sembrava di essere tornata al primo giorno di scuola.

«Bella», sospirai.

«Io mi chiamo Jacob Black». Mi offrì la mano, con aria amichevole. «È stato mio padre a venderti il pick-up».

«Oh», dissi, sollevata, stringendogli la mano, «sei il figlio di Billy. In teoria dovrei ricordarmi di te».

«No, io sono il più giovane. Probabilmente ricordi le mie sorelle più grandi».

«Rachel e Rebecca», mi rammentai all’improvviso. Quando venivo in vacanza a Forks, Charlie e Billy ci obbligavano sempre a giocare assieme, per tenerci occupate mentre loro pescavano. Eravamo troppo timide per fare davvero amicizia. Ovviamente, finii per accumulare tanto nervosismo che all’età di undici anni posi fine alle gite al fiume.

«Ci sono anche loro?». Esanimai le ragazze sulla battigia, chiedendomi se le avrei riconosciute.

«No». Jacob scosse la testa. «Rachel ha vinto una borsa di studio per l’università, Washington State, e Rebecca ha sposato un surfista samoano, adesso vive alle Hawaii».

«Sposata. Caspita». Ero stupefatta. Le due gemelle avevano soltanto un anno e qualche mese più di me.

«Allora, ti piace il pick-up?», chiese lui.

«Lo adoro. Non perde un colpo».

«Già, peccato che sia lento», rise lui. «È stato un sollievo venderlo a Charlie. Papà non voleva che mi mettessi a costruire un’altra macchina finché avevamo ancora a disposizione un veicolo perfettamente in ordine».

«Non è così lento», obiettai.

«Hai provato a passare i cento?».

«In effetti no».

«Brava, non provarci mai». Sorrise.

Ricambiare il sorriso mi venne spontaneo. «In caso di incidente è indistruttibile», dissi, a difesa del mio automezzo.

«Probabilmente quel vecchio mostro resisterebbe anche a un carro armato», aggiunse lui, con un’altra risata.

«Hai detto che costruisci macchine?», chiesi incuriosita.

«Quando ho il tempo, e i pezzi. A proposito, sai dove potrei procurarmi un cilindro freni per una Volkswagen Golf del 1986?», aggiunse scherzando. Aveva una voce piacevole, roca.

«Mi dispiace», dissi, sorridendo, «ultimamente non me ne sono capitati tra le mani, ma terrò gli occhi aperti». Come se sapessi cos’è un cilindro freni. La conversazione con Jacob mi veniva molto facile.

Sfoderò un sorriso luminoso, rivolgendomi uno sguardo di apprezzamento che stavo imparando a riconoscere. Anche qualcun altro se ne accorse.

«Conosci Bella, Jacob?», chiese Lauren - con un tono di voce che mi sembrò insolente - dall’altra parte del falò.

«Più o meno ci conosciamo da quando sono nato», disse divertito, senza smettere di sorridere.

«Che carino». A giudicare dalla sua espressione, non ci trovava proprio niente di carino, e strinse a fessura i suoi occhi pallidi da pesce.

«Bella», insistette lei, fissandomi bene negli occhi, «stavo giusto dicendo a Tyler che è davvero un peccato che i Cullen non si siano uniti a noi. Come mai nessuno ha pensato di invitarli?». La sua espressione preoccupata non era affatto convincente.

«Vuoi dire la famiglia del dottor Carlisle Cullen?», chiese il ragazzo più grande e alto prima che potessi rispondere io, con grande irritazione di Lauren. Somigliava più a un uomo che a un ragazzo, e la sua voce era molto profonda.

«Sì. Li conosci?», chiese la smorfiosa, voltandosi parzialmente verso di lui.

«I Cullen non vengono qui», rispose lui con un tono che voleva chiudere il discorso, ignorando la domanda.

Tyler cercò di ricatturare l’attenzione di Lauren e le chiese cosa ne pensasse di un CD che teneva tra le mani. Lei si lasciò distrarre.

Ammutolita, squadrai il ragazzo dalla voce profonda, ma lui si era voltato verso la foresta scura alle nostre spalle. Aveva detto che i Cullen non venivano da quelle parti, ma la sua voce alludeva a qualcos’altro: non avevano il permesso di andarci, era un luogo vietato. Il suo modo di fare mi lasciò stranita, cercai di non badarci, ma senza successo.

Jacob interruppe la mia meditazione. «Allora, Forks ti ha già fatto impazzire?».

«“Impazzire” mi sembra riduttivo». Feci una smorfia. Lui rispose con un sorriso comprensivo.

Avevo ancora in testa quel commento fugace sui Cullen, e di colpo trovai l’ispirazione. Era un piano stupido, ma non avevo alternative. Speravo che il giovane Jacob non ci sapesse ancora fare con le ragazze e che perciò non avrebbe smascherato i miei tentativi - a dir poco pietosi - di flirtare con lui.

«Ti va una passeggiata sulla spiaggia?», chiesi, cercando di imitare il modo che aveva Edward di guardare in su di sottecchi. L’effetto non era proprio identico, ovviamente, ma Jacob non si fece pregare e scattò in piedi.

Mentre camminavamo sullo strato di pietre multicolori, diretti verso l’argine di tronchi alla deriva, le nuvole strinsero le fila e velarono il cielo; la temperatura si abbassò di colpo e il mare si fece più scuro. Sprofondai le mani nelle tasche della giacca.

«Quanti anni hai, sedici?», chiesi, cercando di non fare la figura dell’idiota mentre sbattevo le ciglia come avevo visto fare a qualche ragazza in TV.

«Ne ho appena compiuti quindici», confessò lui, lusingato.

«Davvero?». La mia espressione era piena di falsa sorpresa. «Ti facevo più grande».

«Sono alto per la mia età».

«Vieni spesso a Forks?», chiesi con malizia, come se sperassi in un sì. Mi sentivo davvero idiota. Temevo che mi avrebbe guardata con disgusto e accusata di imbrogliarlo, ma lui sembrava contento.

«Non tanto», disse serio. «Ma appena finisco la macchina potrò venirci quando mi pare, dopo aver preso la patente».

«Chi è il ragazzo che parlava con Lauren? Sembra un po’ grande per frequentare quelli della nostra età». Parlavo al plurale di proposito, per chiarirgli che preferivo lui.

«Quello è Sam, ha diciannove anni».

«Cos’è che ha detto a proposito della famiglia del dottore?», chiesi con aria innocente.

«I Cullen? Oh, che non hanno il permesso di entrare nella riserva». Distolse lo sguardo e lo puntò verso James Island, dopo aver confermato i miei sospetti.

«Perché no?».

Tornò a guardarmi, mordendosi un labbro. «Ops. In teoria non potrei dirti nulla».

«Oh, non lo dico a nessuno, sono soltanto curiosa». Cercai di sorridere in modo seducente, chiedendomi se non stessi esagerando un po’.

Lui comunque ricambiò il sorriso, evidentemente stavo facendo colpo. Poi alzò un sopracciglio e la sua voce diventò ancora più roca di prima.

«Ti piacciono i racconti del terrore?», chiese con fare minaccioso.

«Li adoro», risposi, sforzandomi di colpirlo con il mio entusiasmo.

Jacob fece qualche passo, avvicinandosi a un tronco da cui spuntavano radici simili alle zampe sottili di un enorme ragno pallido. Si adagiò su una di quelle radici ritorte, e io mi accomodai al centro del fusto. Fissava le rocce, più in basso, con l’ombra di un sorriso agli angoli dell’ampia bocca. Stava preparando il racconto a puntino, era evidente. Mi sforzai di non pensare al mio coinvolgimento personale.

«Conosci le nostre vecchie storie, quelle sulle origini dei Quileutes?».

«Non tanto», ammisi.

«Be’, ci sono un sacco di leggende, alcune sembra risalgano al Diluvio Universale. A quanto pare, gli antichi Quileutes legarono le loro canoe alla cima degli alberi più alti, per sopravvivere, come Noè e la sua arca». Sorrise, per dimostrarmi la sua scarsa fiducia in quei racconti. «Secondo un’altra leggenda, la nostra gente discende dai lupi, e i lupi sono nostri fratelli da sempre. Le leggi tribali vietano ancora oggi di ucciderli. E poi ci sono le storie che parlano dei freddi».

La sua voce si fece più flebile.

«I freddi?». A quel punto non riuscivo più a celare il mio interesse.

«Sì. Alcune storie che parlano dei freddi sono antiche come quella dei lupi, ma ce ne sono anche di recenti. Secondo la leggenda, il mio bisnonno aveva conosciuto dei freddi. Fu proprio lui a stipulare il patto che vietò loro di entrare nella nostra terra». Alzò gli occhi al cielo.