«Il tuo bisnonno?».
«Era uno degli anziani della tribù, come mio padre. Vedi, i freddi sono nemici naturali dei lupi... Be’, non proprio dei lupi in sé, solo di quelli che si trasformano in uomini, come i nostri antenati. Quelli che chiamate licantropi».
«I licantropi hanno nemici?».
«Solo uno».
Non staccavo gli occhi da lui, sperando di spacciare la mia impazienza per ammirazione.
«Ecco perché i freddi sono nostri nemici da sempre. Ma il branco che giunse nel nostra territorio all’epoca del mio bisnonno era diverso. Non cacciavano come gli altri membri della loro specie, non erano pericolosi per la tribù. Perciò il mio avo stipulò una tregua. Se loro avessero promesso di stare lontani dalla nostra terra, noi li avremmo protetti dai visi pallidi». Mi strizzò l’occhio.
«Ma se non erano pericolosi, perché...». Cercavo di capirci qualcosa, senza lasciar trapelare quanto la sua storia fosse una faccenda seria, per me.
«È sempre un rischio per gli umani avere a che fare con i freddi, anche con quelli civilizzati come il clan di cui ti sto parlando. C’è il rischio che siano troppo affamati per resistere». Sottolineò le sue parole con una sfumatura volutamente minacciosa.
«Cosa intendi per “civilizzati”?».
«A quanto pare, non predavano esseri umani. Le loro prede erano soltanto animali».
Cercai di nascondere il turbamento. «Ma con tutto questo, cosa c’entrano i Cullen? Sono come i freddi che conosceva tuo bisnonno?».
«No». Fece una pausa enfatica. «Sono loro, quei freddi».
Probabilmente pensò che l’espressione di paura sul mio viso avesse a che fare soltanto con il racconto. Sorrise soddisfatto e proseguì.
«Se ne sono aggiunti altri, una femmina e un maschio nuovi, ma gli altri sono sempre gli stessi. Ai tempi del mio bisnonno, il loro capo, Carlisle, era già noto. Era giunto da queste parti e se ne era riandato ancora prima che arrivasse la vostra gente». Si sforzò di non sorridere.
«E cosa sono?», riuscii infine a chiedere. «Cosa sono i freddi?».
Sorrise beffardo.
«Bevitori di sangue», rispose, con una voce che metteva i brividi. «La tua gente li chiama “vampiri”».
Dopo quella frase rivolsi lo sguardo alla schiuma grezza delle onde, incapace di controllare la mia espressione.
«Hai la pelle d’oca», disse lui, ridacchiando.
«Sei bravo a raccontare storie». Non staccavo gli occhi dal mare.
«Storie da pazzi, eh? C’è poco da meravigliarsi se mio padre non vuole che le raccontiamo a nessuno».
Non ero ancora tanto padrona del mio volto da poterlo guardare in faccia. «Non preoccuparti, non svelerò nulla».
«Credo di avere appena violato il trattato», disse, ridendo.
«Me lo porterò nella tomba, lo prometto». Rabbrividii.
«A parte gli scherzi, non farne parola con Charlie. Ha fatto una scenata a mio padre, quando ha saputo che alcuni dei nostri si rifiutano di andare all’ospedale di Forks, da quando ci lavora il dottor Cullen».
«Tranquillo, non lo farò».
«E allora, pensi che siamo un mucchio di indiani superstiziosi o cosa?», chiese, scherzoso, ma anche vagamente preoccupato. Non avevo ancora distolto lo sguardo dall’oceano.
Mi voltai e cercai di rivolgergli il più normale dei sorrisi.
«No, penso che tu sia molto bravo a raccontare. Ho ancora la pelle d’oca, vedi?». Alzai un braccio.
«Fico». Sorrise.
A quel punto il rumore dei sassi sulla spiaggia ci avvertì che qualcuno si stava avvicinando. Alzammo la testa in contemporanea e notammo Mike e Jessica a una quarantina di metri che venivano verso di noi.
«Ah, sei li, Bella», gridò Mike sollevato, facendo un gesto con la mano.
«È il tuo ragazzo?», chiese Jacob, allarmato dal tono di gelosia nella voce di Mike. Ero stupita che apparisse così ovvio.
«No, niente affatto», sussurrai. Ero profondamente grata a Jacob e impaziente di ricompensarlo. Gli feci l’occhiolino, attenta a non farmi notare da Mike. Lui sorrise, lusingato dal mio goffo corteggiamento.
«Perciò, appena prendo la patente...», disse.
«Potrai venire a trovarmi a Forks. Una volta o l’altra potremmo uscire». Mi sentivo in colpa, sapevo di averlo usato. Ma Jacob mi piaceva davvero. Saremmo potuti diventare amici senza difficoltà.
A quel punto Mike ci aveva raggiunti, Jessica lo seguiva a qualche passo di distanza. Lo vidi squadrare Jacob, e pareva soddisfatto di trovarsi di fronte a un ragazzino.
«Dove siete stati?», chiese, malgrado la risposta fosse sotto il suo naso.
«Jacob mi stava raccontando un po’ di storie di folklore locale», mi giustificai spontaneamente. «Molto interessanti».
Feci un gran sorriso a Jacob, che ricambiò.
«Be’...», Mike tacque per un istante, valutando la situazione e la nostra complicità. «Ci stiamo preparando per andarcene, sembra che stia per piovere».
Alzammo gli occhi al cielo, sempre più cupo. Sì, era senz’altro pioggia.
«D’accordo». Scattai in piedi. «Arrivo».
«Piacere di averti rivista», disse Jacob, certo per stuzzicare un po’ Mike.
«Piacere mio. La prossima volta che Charlie viene a trovare Billy lo accompagno», promisi.
Il suo volto si illuminò di un gran sorriso. «Sarebbe fico».
«E grazie», aggiunsi sinceramente.
Salii sul sentiero di rocce che portava al parcheggio con il cappuccio alzato. Tra i sassi comparivano le macchie scure delle prime gocce di pioggia. Quando io, Mike e Jess raggiungemmo il Suburban, gli altri stavano già caricando i bagagli. Mi infilai accanto ad Angela e Tyler, sul sedile posteriore, dichiarando che avevo già goduto del mio turno su quello del passeggero. Angela osservava l’imminente temporale fuori dal finestrino, e Lauren si divincolava, nel posto centrale, cercando di attirare l’attenzione di Tyler: perciò potei liberamente appoggiare la testa allo schienale, chiudere gli occhi e provare con tutte le mie forze a non pensare.
7
Incubo
A Charlie raccontai che dovevo fare un sacco di compiti e che non avevo fame. Era molto agitato per un’imminente partita di basket, di cui io non riuscivo a cogliere il fascino, perciò non captò nulla di strano nella mia voce o sul mio volto.
Salii in camera e chiusi la porta a chiave. Frugai tra il disordine della scrivania in cerca delle mie vecchie cuffie, che collegai al lettore CD. Scelsi un disco che Phil mi aveva regalato per Natale. Era uno dei suoi gruppi preferiti, ma c’erano troppi bassi e strilli, per i miei gusti. Lo inserii nell’apparecchio e mi lasciai cadere sul letto. Indossai le cuffie, schiacciai «play» e alzai il volume a livello spaccatimpani. Chiusi le palpebre, ma c’era ancora troppa luce: mi coprii gli occhi con un cuscino.
Mi concentrai al massimo sulla musica, cercando di capire i testi e di seguire le figure complicate della batteria. Al terzo ascolto avevo memorizzato le parole dei ritornelli. Con mia grande sorpresa scoprii che, superato il primo impatto con il rumore assordante, il gruppo mi piaceva molto. Dovevo ringraziare meglio Phil.
E funzionava. I ritmi schiacciasassi mi impedivano di pensare, esattamente come desideravo. Ascoltai il CD senza sosta, fino a cantarlo pezzo per pezzo, poi mi addormentai.
Aprii gli occhi in un luogo familiare. Un cantuccio della mia coscienza mi diceva che stavo sognando, ma a me sembrava di essere di nuovo in mezzo alla luce verde della foresta. Sentivo lo sciabordio delle onde sulla costa rocciosa. E sapevo che se fossi riuscita a trovare l’oceano, avrei rivisto il sole. Cercavo di seguire il suono dei cavalloni, ma a un tratto spuntò Jacob Black, che mi prese per mano e mi trascinò nell’angolo più buio della foresta.
«Jacob, c’è qualcosa che non va?», chiesi. Sembrava impaurito, e mi tirava verso di sé con tutte le sue forze; io non volevo entrare nell’oscurità.