Ma per me era sempre stato così. Decidere era la parte peggiore, quella che mi faceva soffrire di più. Presa la decisione, mi bastava seguirla, rasserenata dalla certezza di aver fatto una scelta. Talvolta il sollievo era offuscato dallo sconforto, come quando avevo deciso di trasferirmi a Forks. Ma era sempre meglio che dibattersi tra le possibilità.
Convivere con quella mia ultima decisione era facile. Pericolosamente facile.
Così passò il pomeriggio, tranquillo e proficuo. Terminai il saggio prima delle otto. Charlie tornò a casa con parecchie prede, il che mi suggerì di ricordarmi di cercare un libro di ricette a base di pesce, durante il giro di compere a Seattle. I brividi che mi corsero lungo la schiena quando pensai alla gita non furono molto diversi da quelli che provavo prima, quando ancora non avevo parlato con Jacob Black. Avrebbero dovuto cambiare natura. In teoria avrei dovuto essere terrorizzata, sapevo di doverlo essere, ma non nasceva in me quella paura.
Quella notte dormii senza sognare, esausta per l’alzataccia mattutina e per il pessimo sonno della notte precedente. Per la seconda volta da quando ero a Forks, al mio risveglio fui colpita dalla luce abbagliante e gialla di un raggio di sole. Scattai a guardare fuori e restai attonita a vedere come in cielo non ci fosse neanche una nuvola, a parte qualche piccolo e soffice batuffolo che di certo non portava pioggia. Aprii la finestra - sorpresa che non fosse incollata, dopo chissà quanti anni che era rimasta chiusa - e respirai l’aria relativamente pulita. Faceva quasi caldo, e il vento si era calmato. Sentivo l’elettricità nelle vene.
Quando scesi in cucina Charlie stava finendo di fare colazione e si accorse immediatamente del mio umore.
«Bella giornata, eh?».
«Sì», risposi, con un sorriso.
Lui ricambiò, con lo sguardo luminoso, qualche ruga d’espressione agli angoli degli occhi marroni. Quando Charlie sorrideva era facile intuire perché lui e mia madre si fossero lanciati con troppa foga in un matrimonio precoce. Il giovane romantico che era stato in quei giorni era in gran parte svanito prima che iniziassi a conoscerlo, come i capelli castani - lo stesso castano dei miei, ma con una consistenza diversa - si erano fatti più radi e scoprivano una porzione sempre più ampia di cute chiara, sopra la fronte. Ma quando sorrideva riuscivo a vedere un po’ dell’uomo con cui Renée era scappata a neanche vent’anni.
Feci colazione di buonumore, con gli occhi fissi al pulviscolo che fluttuava nell’aria, illuminato dal sole che filtrava dalla finestra sul retro. Sentii Charlie salutarmi e la volante della polizia allontanarsi. Mi trattenni per qualche istante sulla porta, con la giacca a vento tra le mani. Lasciarla a casa era come sfidare il destino. Sospirando, la presi sottobraccio e misi piede fuori, entrando in una luce brillante come non ne vedevo da mesi.
Con una buona dose di olio di gomito fui in grado di abbassare quasi completamente i finestrini del pick-up. Fui una delle prime ad arrivare a scuola: avevo avuto talmente tanta fretta di uscire, da essermi dimenticata di guardare l’orologio. Parcheggiai e mi diressi verso le panchine all’aperto, quasi mai utilizzate, sul lato sud della mensa. Erano ancora umide, perciò mi sedetti sulla giacca, felice di poterla utilizzare in quel modo. Avevo fatto i compiti - il risultato di una vita sociale che non ingranava - ma c’erano ancora alcuni problemi di trigonometria di cui non ero sicura. Libro alla mano, mi ci applicai solerte, ma a metà della revisione del primo esercizio mi ritrovai a sognare a occhi aperti, ammirando i giochi di luce del sole sulla corteccia rossa degli alberi. Scarabocchiavo distratta sui margini del quaderno. Dopo qualche minuto, mi accorsi che sulla pagina avevo disegnato cinque paia di occhi scuri che mi fissavano. Le cancellai con il bianchetto.
«Bella!», udii. Sembrava la voce di Mike. Mi guardai intorno e mi resi conto che la scuola intanto si era popolata, mentre io me ne ero rimasta lì, assente. Erano tutti in maglietta, alcuni addirittura in calzoni corti, malgrado la temperatura non superasse i quindici gradi. Mike avanzava verso di me, con un paio di bermuda cachi e una felpa da rugby a strisce, e mi salutava con la mano.
«Ehi, Mike», risposi, agitando la mano al suo saluto: non potevo essere di malumore in una mattina così.
Si sedette al mio fianco, il riflesso dorato delle punte ben curate dei suoi capelli splendeva al sole. Era talmente felice di vedermi che non potei non sentirmi gratificata.
«Non mi sono mai accorto... hai una sfumatura di rosso nei capelli», commentò, prendendo tra le dita una ciocca che svolazzava mossa dalla brezza leggera.
«Solo quando c’è il sole».
Mi sentii un po’ a disagio quando mi sistemò la ciocca dietro l’orecchio.
«Gran giornata, eh?».
«La mia giornata ideale», risposi.
«Cos’hai fatto ieri?». Il suo tono di voce era un po’ troppo possessivo.
«Più che altro ho lavorato al saggio». Non aggiunsi che l’avevo anche finito, non volevo mettermi troppo in mostra.
Lui si diede un colpetto sulla fronte con il palmo della mano. «Oh, già... la consegna è giovedì, vero?».
«Ehm, mercoledì, mi sembra».
«Mercoledì?». Si fece più serio. «Cattiva notizia... Tu di cosa parli?».
«Se si possa considerare misogino il trattamento shakespeariano dei personaggi femminili».
Mi guardava come se gli avessi appena parlato in lingua farfallina.
«Mi toccherà lavorarci stasera», disse demoralizzato. «Stavo per chiederti se ti andava di uscire».
«Ah». Mi aveva preso in contropiede. Perché non potevo lasciarmi andare a una conversazione piacevole con Mike senza dover provare imbarazzo?
«Be’, potremmo uscire a cena o qualcosa del genere... e il saggio lo preparo dopo». Mi sorrise, speranzoso.
«Mike...». Odiavo essere messa alla corda in quel modo. «Non credo che sarebbe un’idea grandiosa».
Rimase a bocca aperta. «Perché?», chiese, guardingo. Pensai immediatamente a Edward, e forse Mike stava facendo altrettanto.
«Se osi ripetere quel che ti sto dicendo ti ammazzo, ma penso... penso che feriresti i sentimenti di Jessica».
Restò di sasso, ovviamente era l’ultima cosa a cui pensava. «Jessica?».
«Mike, stai scherzando o sei cieco?».
«Ah», esclamò, chiaramente sbigottito. Colsi l’occasione per sgattaiolare via.
«Iniziano le lezioni, e non posso arrivare ancora in ritardo». Raccolsi i libri e li infilai nello zaino.
Ci dirigemmo in silenzio verso l’edificio 3, Mike sembrava fra le nuvole. Di qualunque genere fossero i suoi pensieri, speravo facesse la scelta giusta.
Quando vidi Jessica, a trigonometria, non stava più nella pelle. Lei, Angela e Lauren avevano organizzato un’uscita a Port Angeles, nel tardo pomeriggio, per comprare qualche vestito per il ballo, e voleva che le seguissi, anche se a me non serviva niente. Ero indecisa. Mi avrebbe fatto piacere andare fuori città con qualche amica, ma il problema era Lauren. E chissà cos’avrei fatto quella sera... Ma non era in quella direzione che volevo lasciar correre i miei pensieri. Certo, c’era il sole che mi rendeva felice. Ma non era l’unico responsabile del mio umore euforico, proprio no.
Perciò la lasciai in forse, dicendole che prima ne avrei parlato con Charlie.
Fra trigonometria e spagnolo non fece altro che chiacchierare del ballo, e continuò senza tregua finché la lezione non terminò, cinque minuti in ritardo rispetto al solito, e venne l’ora di pranzare. Ero troppo presa dalla mia frenesia e impazienza per prestarle attenzione. L’oggetto della mia ansia pressante non era solo lui ma tutti i Cullen: vagliavo su di loro i sospetti che mi assillavano. Attraversata la soglia della mensa, sentii il primo vero fremito di paura scendermi lungo la schiena e installarsi nello stomaco. Erano capaci di leggermi nel pensiero? E poi fui scossa da un timore di altro genere: Edward mi avrebbe di nuovo invitata a sedermi accanto a lui?