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Come era ormai mia abitudine, lanciai una prima occhiata verso il tavolo dei Cullen. Il panico mi riempì la pancia quando vidi che era vuoto. Con poca convinzione, passai al setaccio il resto della mensa, sperando di trovare lui, da solo, ad aspettarmi. La sala era quasi piena - eravamo in ritardo - ma non c’era segno di Edward né dei suoi fratelli. La desolazione si abbatté su di me e mi paralizzò.

Mi trascinai alle spalle di Jessica, senza più preoccuparmi di fingere che stavo a sentirla.

Gli altri erano già tutti seduti al nostro tavolo. Evitai il posto vuoto accanto a Mike, e mi sistemai vicino ad Angela. Con la coda dell’occhio mi accorsi che Mike aveva fatto accomodare Jessica con molta gentilezza e che il viso di lei si era illuminato.

Angela mi rivolse un paio di domande sul saggio shakespeariano, a cui cercai di rispondere con naturalezza mentre mi sentivo sprofondare nello sconforto. Anche lei mi invitò a partecipare all’uscita, e a quel punto accettai, dato che ormai ero alla disperata ricerca di una distrazione.

L’ultimo filo di speranza a cui mi aggrappavo svanì con l’inizio della lezione di biologia, quando vidi il suo posto vuoto e provai una nuova ondata di delusione.

Il resto della giornata trascorse lento e triste. Dedicammo l’intera lezione di ginnastica alle regole del badminton, per me l’ennesima tortura di una serie infinita. Se non altro, per una volta potei restare seduta ad ascoltare, senza inciampare qua e là sul campo da gioco. Per giunta il professore non riuscì a finire la spiegazione, il che mi concedeva un giorno di tregua in più. Poco importava che nel giro di due lezioni mi avrebbero armata di racchetta e scatenato contro il resto della classe.

Ero felice di tornare a casa, dove sarei stata libera di essere imbronciata e lagnosa, prima di uscire con Jessica e compagnia bella. Appena fui arrivata da Charlie, però, Jess mi telefonò per annullare tutti i piani. Cercai di reagire con entusiasmo alla notizia che Mike l’aveva invitata a cena fuori - era davvero un sollievo che finalmente lui iniziasse a capirci qualcosa ma suonai falsa anche a me stessa. Lo shopping era rimandato di un giorno.

E questo mi lasciava ben poche occasioni di distrarmi. Avevo fatto marinare il pesce per la cena, e c’erano un po’ di insalata e di pane avanzati dalla sera prima, perciò non avevo niente da fare. Passai una mezz’ora ben concentrata sui compiti, ma finii anche quelli. Scaricai la posta, rilessi tutti i messaggi di mia madre in ordine cronologico: più erano recenti e più mi irritavano. Feci un sospiro e iniziai a battere una breve risposta.

Mamma,

scusa, ma sono stata fuori. Sono andata in gita alla spiaggia con gli amici. E dovevo scrivere un saggio.

Come scuse suonavano piuttosto patetiche, perciò lasciai perdere.

Oggi c’è il sole - lo so, è scioccante anche per me - perciò sto uscendo, vado a fare un giro fuori, ad assorbire tutta la vitamina D che posso. Ti voglio bene.

Bella.

Scelsi di far passare un’altra ora leggendo qualcosa che non avesse a che fare con la scuola. A Forks avevo portato con me una piccola collezione di libri, tra i quali il più malconcio era una raccolta delle opere di Jane Austen. Scelsi quello e decisi di andare a leggerlo nel cortile sul retro. Mentre scendevo le scale pescai dalla cassettiera un vecchio tappeto logoro.

Fuori, nel piccolo giardino quadrato di Charlie, piegai il tappeto in due e lo stesi ben lontano dall’ombra degli alberi, sull’erba fitta e umida del prato che la luce calda del sole non riusciva ad asciugare. Mi sdraiai sulla pancia, con i piedi per aria, e feci scorrere i titoli dei romanzi contenuti nel volume, in cerca di quello che avrebbe impegnato più duramente la mia attenzione. I miei preferiti erano Orgoglio e pregiudizio e Ragione e sentimento. Il primo l’avevo letto da poco, perciò optai per il secondo, salvo ricordarmi, all’inizio del capitolo 3, che l’eroe della storia si chiamava Edward. Irritata, passai a Mansfield Park, ma il protagonista stavolta si chiamava Edmund: troppo simile. Nel diciottesimo secolo non c’erano altri nomi disponibili? Chiusi il libro di scatto, seccata, e mi voltai a pancia in su. Arrotolai le maniche fino alle spalle e chiusi gli occhi. Mi sforzai di non pensare ad altro che al calore che sentivo sulla pelle. La brezza era ancora leggera, ma mi solleticava alzandomi i capelli sul viso. Li raccolsi, schiacciandoli tra la testa e il tappeto, per concentrarmi sul calore che mi sfiorava gli occhi, le guance, le labbra, le braccia, il mento, e filtrava attraverso la mia camicia leggera...

E non mi accorsi più di nulla finché non sentii il rumore dell’auto di Charlie che avanzava sul selciato. Mi alzai, sorpresa, rendendomi conto che la luce era svanita dietro gli alberi: mi ero addormentata. Mi guardai attorno, intontita, con la sensazione di non essere sola.

«Charlie?», chiamai allora. Ma lo sentii sbattere la porta d’ingresso.

Mi alzai in un baleno, stupidamente nervosa, e raccolsi il tappeto ormai umido e il libro. Corsi in casa a mettere su il soffritto, consapevole che avremmo cenato in ritardo. Charlie aveva appeso la fondina e si stava togliendo gli stivali.

«Scusa, papà, non ho ancora iniziato a cucinare... Mi sono addormentata in giardino». Mi lasciai scappare uno sbadiglio.

«Non preoccuparti», rispose lui. «Volevo dare un’occhiata alla partita in TV».

Dopo cena guardai la televisione assieme a Charlie, tanto per fare qualcosa. Non c’era niente che mi interessasse, ma lui sapeva che non sopportavo il baseball, perciò deviò su una stupida sit-com che non piaceva a nessuno dei due. Tuttavia, sembrava contento che facessimo qualcosa assieme. E farlo felice, malgrado il mio abbattimento, mi faceva sentire meglio.

«Papà», dissi durante la pubblicità, «Jessica e Angela domani sera vanno a Port Angeles a caccia di vestiti per il ballo di sabato, e mi hanno chiesto di aiutarle a scegliere... È un problema se ci vado anch’io?».

«Jessica Stanley?», chiese.

«E Angela Weber». Sospirai, mentre fornivo i dettagli.

Non sapeva cosa rispondere. «Ma tu al ballo non ci vai, vero?».

«No, papà, aiuto loro a trovare i vestiti giusti: hai presente, serve una critica costruttiva». Solo gli uomini hanno bisogno di certe spiegazioni.

«Be’, d’accordo». Sembrava aver capito che le faccende da ragazze non erano il suo territorio. «Dopodomani dovete andare a scuola, però».

«Usciamo subito dopo le lezioni, così torniamo presto. Per cena ti arrangi tu?».

«Bells, mi sono fatto da mangiare per diciassette anni, prima che tu arrivassi».

«Chissà come hai fatto a sopravvivere», borbottai, poi aggiunsi a voce più alta: «Ti lascio qualcosa nel frigo per prepararti dei sandwich, d’accordo? Lì in alto».

Il mattino dopo c’era ancora il sole. Mi risvegliai con rinnovate speranze, che cercai fieramente di mettere a tacere. Mi preparai alla temperatura più alta indossando una camicia blu con scollo a V, un indumento che a Phoenix sfoderavo in pieno inverno.

Avevo progettato di arrivare a scuola il più tardi possibile, in modo da non aver tempo da perdere prima dell’inizio delle lezioni. Con un vuoto nel cuore, girai per tutto il parcheggio cercando un posto libero, allo stesso tempo sperando di scorgere la Volvo argentata, che chiaramente non c’era. Parcheggiai in ultima fila e arrivai all’aula di inglese di corsa, senza fiato ma in orario, prima dello squillo della campanella.

Andò esattamente come il giorno prima: non riuscivo a impedire che qualche seme di speranza germogliasse nella mia mente, ma finii per calpestarlo con dolore, dopo una vana perlustrazione della sala mensa, quando mi sedetti, sola, al tavolo degli esperimenti di biologia.

L’uscita a Port Angeles era in programma per quella sera e mi entusiasmava molto di più perché Lauren aveva altri impegni. Non vedevo l’ora di uscire dalla città per non dovermi più guardare alle spalle nella speranza di vederlo spuntare dal nulla; come faceva sempre. Mi impegnai a restare di buonumore per tutta la sera e a non rovinare il gusto di Angela o Jessica per la caccia al vestito. Magari avrei comprato qualcosa anch’io. Mi rifiutavo di pensare che forse sarei andata a Seattle da sola, quel fine settimana. Il mio programma originale non mi attraeva più. Non avrebbe certo annullato l’appuntamento senza almeno avvertirmi.