A grandi passi, puntai verso sud, in direzione di una fila di vetrine che promettevano bene. Quando le raggiunsi, però, mi resi conto che si trattava soltanto di un negozio di ricambi e di un locale sfitto. Avevo ancora molto tempo a disposizione per cercare Jess e Angela, e prima di incontrarle dovevo assolutamente rimettere l’umore in carreggiata. Mi passai le dita tra i capelli un paio di volte e feci qualche respiro profondo, poi proseguii, svoltando l’angolo.
Attraversando l’ennesima strada, iniziai a temere di aver preso la direzione sbagliata. I pochi pedoni che incrociavo andavano verso nord, e le costruzioni in quella zona sembravano perlopiù capannoni. Decisi di spostarmi verso est appena possibile, proseguire per qualche isolato e tentare la fortuna cercando un percorso alternativo verso il molo.
Dall’angolo di fronte spuntò un gruppo di quattro uomini, vestiti in maniera troppo casual per essere appena usciti dall’ufficio, ma anche troppo trasandata per essere turisti. Mano a mano che si avvicinavano, mi accorsi che non dovevano essere molto più grandi di me. Si scambiavano battute e risate sguaiate e rauche, fingevano di prendersi a pugni, per scherzare. Cercai di farmi da parte per lasciarli passare e accelerai il passo, puntando lo sguardo all’angolo di strada dietro di loro.
«Ehilà», disse uno quando mi furono a fianco, e ce l’aveva con me, perché nei dintorni non c’era nessun altro. Alzai automaticamente gli occhi. Due di loro si erano fermati, gli altri rallentavano. Probabilmente, a parlare era stato il più vicino, un ragazzo poco più che ventenne, tozzo e con i capelli scuri. Indossava una camicia di flanella aperta sopra una maglietta sporca, jeans tagliati e sandali. Fece mezzo passo verso di me.
«Ciao», mormorai, per un riflesso involontario. Distolsi subito lo sguardo e mi diressi svelta verso l’angolo della via. Li sentii ridere a gran voce dietro di me.
«Ehi, aspetta!», urlò di nuovo uno di loro alle mie spalle, ma io abbassai la testa e svoltai, sospirando di sollievo. Li sentivo ancora berciare, là dietro.
Mi ritrovai su un marciapiede che correva lungo il retro di una serie di capannoni dai colori tetri, ognuno dotato di grandi porte d’accesso ai magazzini, a quell’ora ormai chiuse. Sul lato sud della strada non c’era il marciapiede, ma solo una rete con in cima del filo spinato, che impediva l’accesso a una specie di deposito di pezzi di ricambio. Mi ero allontanata parecchio dalla zona di Port Angeles a cui, da forestiera, sarebbe stato più saggio limitarmi. Le nuvole stavano tornando, si accumulavano all’orizzonte e disegnavano un tramonto prematuro nel cielo già buio. A est c’era ancora un po’ di luce, ma sempre più grigia, attraversata da venature rosa e arancio. Avevo lasciato la giacca a vento in macchina, e un improvviso brivido di freddo mi costrinse a tenere le braccia strette al busto. Un furgoncino solitario mi passò davanti, e poi la strada restò deserta.
All’improvviso il cielo divenne ancora più scuro, e lanciando uno sguardo alle mie spalle per osservare la nuvola che lo copriva, fui sorpresa di vedere due uomini che camminavano in silenzio dietro di me.
Facevano parte del gruppetto che avevo incrociato poco prima, ma tra loro non c’era il moro che mi aveva parlato. Mi voltai di scatto e accelerai il passo. Sentii un altro brivido, che non aveva niente a che vedere con il freddo. Tenevo la borsa a tracolla ben stretta al corpo, come si dovrebbe fare per evitare lo scippo. Sapevo benissimo dove custodivo lo spray antiaggressione al peperoncino: nella sacca da viaggio sotto il mio letto, inutilizzato. Non avevo molti soldi con me, soltanto una banconota da venti e poche da uno, perciò pensai di lasciar cadere la borsa “accidentalmente” e di darmela a gambe. Ma una vocina impaurita, nella mia testa, mi suggeriva che quelli potessero essere molto peggio che dei ladri.
Stavo attenta ai loro passi, troppo silenziosi rispetto al chiasso esagerato che quei tizi facevano poco prima, e non mi sembrava che si stessero avvicinando né accelerando. Respira, continuavo a ripetermi. Non è detto che ti stiano seguendo. Continuai a camminare più svelta possibile senza correre, concentrandomi sulla svolta a destra distante ormai pochi metri da me. Li sentivo, restavano a distanza. Un’auto blu proveniente da sud percorse la via e passò oltre, veloce. Pensai di fermarla saltandole davanti, ma esitai perché non ero sicura che mi stessero davvero seguendo, e in un attimo fu troppo tardi.
Raggiunsi l’angolo, ma un’occhiata veloce svelò che si trattava soltanto di un vicolo cieco che dava sul retro di un altro edificio. Stavo già per imboccarlo: mi toccò correggere in fretta la traiettoria e attraversare la strada di fronte per tornare sul marciapiede. La strada finiva alla traversa successiva, in corrispondenza di un cartello di STOP. Mi concentrai sui passi silenziosi dietro di me, indecisa se mettermi a correre o no. Sembravano lontani, ma sapevo che in ogni caso mi avrebbero raggiunta. Di sicuro, se avessi accelerato sarei inciampata e finita a gambe all’aria. Eppure, li stavo distanziando. Rischiai uno sguardo veloce alle mie spalle e notai con sollievo che ormai erano a una dozzina di metri. Ma non mi levavano gli occhi di dosso.
Impiegai un’eternità per raggiungere l’ultima traversa. Procedevo a passo sostenuto, sempre più lontana dagli inseguitori. Forse si erano accorti di avermi spaventata e se n’erano dispiaciuti. Alla vista di due auto che attraversavano l’incrocio verso il quale ero diretta, tirai un sospiro di sollievo. Una volta abbandonata quella strada deserta avrei incrociato altre persone. Voltai l’angolo, finalmente libera dall’ansia.
E mi bloccai di colpo.
La via correva tra due file di muri spogli, senza porte né finestre. Soltanto a due isolati di distanza vedevo qualche lampione, auto e altri pedoni, ma erano irraggiungibili. Perché a metà strada si trovavano gli altri due membri del gruppo, che mi fissavano sorridenti ed eccitati. Rimasi paralizzata sul marciapiede. In quel momento mi resi conto che non mi avevano inseguita.
Mi avevano intrappolata.
Mi fermai per un solo secondo, ma sembrava interminabile. Poi mi voltai e attraversai la strada di corsa. Avevo il pessimo presentimento che fosse un tentativo inutile. I passi che mi seguivano si erano fatti più rumorosi.
«Eccovi!». La voce tonante del ragazzo tozzo con i capelli scuri spezzò di colpo il silenzio e mi fece sobbalzare. Sembrava avercela con qualcuno alle mie spalle, nascosto dalla luce sempre più fioca.
«Già», rispose una voce decisa dietro di me, facendomi sobbalzare di nuovo mentre tentavo di accelerare il passo. «Abbiamo preso solo una piccola deviazione».
A quel punto fui costretta a rallentare. Mi stavo avvicinando troppo in fretta ai due appoggiati al muro. Sapevo urlare forte e a lungo, perciò mi riempii i polmoni, pronta a strillare, ma temevo di avere la gola troppo secca per raggiungere un volume accertabile. Con un movimento svelto mi sfilai la borsa passandola sopra la testa, stringendo la tracolla con una mano, pronta a offrirla o a usarla come arma.
L’uomo tarchiato si allontanò dal muro, vedendomi rallentare, e si avvicinò piano.
«Stammi lontano», dissi, con un tono di voce che mi auguravo fosse forte e spavaldo. Ma quanto alla gola secca, avevo indovinato: niente volume.
«Non fare così, bellezza», disse lui, e alle mie spalle ricominciarono le risate roche.
Mi preparai allo scontro, a guardia alta, cercando di ricordare, nel panico, quel poco che sapevo di autodifesa. Base del polso in avanti, nella speranza di spaccare il naso dell’assalitore o di schiacciarglielo nel cranio. Dito nell’orbita, nel tentativo di cavargli un occhio. E ovviamente il tradizionale calcio nel basso ventre. A quel punto la voce pessimista che sentivo in testa parlò di nuovo e mi ricordò che probabilmente non avrei avuto nessuna possibilità neanche scontrandomi con uno solo di loro, che erano in quattro. Zitta! Cercai di farla tacere prima che il terrore mi immobilizzasse. Se proprio dovevo soccombere, avrei trascinato qualcuno con me. Cercai di deglutire, per poter cacciar fuori un urlo decente.