All’improvviso, da dietro l’angolo spuntarono due fari accesi, e un’auto quasi investì il tipo tarchiato, costringendolo a balzare sul marciapiede. Mi buttai in mezzo alla strada, quell’auto doveva fermarsi, a costo di investirmi. Ma la macchina argentata, a sorpresa, inchiodò derapando, e la portiera del passeggero si aprì a pochi centimetri da me.
«Sali», ordinò una voce, furiosa.
Fu straordinario rendermi conto che la paura soffocante era svanita all’istante, straordinario sentirmi inondare da un’immediata sensazione di sicurezza - prima ancora di montare in macchina - non appena riconobbi la sua voce. Saltai sul sedile e chiusi la portiera, sbattendola.
L’auto era buia, non si era accesa nessuna luce di cortesia, e il bagliore debole del cruscotto illuminava a malapena il suo viso. Le gomme stridettero sull’asfalto, e l’auto puntò verso nord con un violento colpo d’acceleratore, sbandando in mezzo ai teppisti sbalorditi. Mentre la macchina si raddrizzava e schizzava verso il molo, con la coda dell’occhio li vidi tuffarsi sul marciapiede.
«Allacciati la cintura», ordinò lui, e mi accorsi di essere avvinghiata al sedile. Obbedii alla svelta: nell’oscurità risuonò chiaramente lo scatto della sicura. Lui svoltò bruscamente a sinistra e iniziò ad accelerare, superando parecchi STOP senza fermarsi mai.
Eppure mi sentivo totalmente al sicuro e per il momento niente affatto preoccupata di sapere dove stessimo andando. Vidi il suo volto e provai un sollievo profondo, un sollievo che non aveva a che fare soltanto con il salvataggio improvviso. Studiai quei lineamenti perfetti alla luce fioca, aspettando che il mio respiro tornasse regolare, finché mi accorsi che la sua espressione era rabbiosa come quella di un assassino.
«Stai bene?», chiesi, sorpresa di quanto roca fosse la mia voce.
«No», fu la sua unica risposta, furibonda.
Restai in silenzio a osservarlo mentre guidava senza staccare gli occhi dalla strada, finché l’auto non si fermò all’improvviso. Mi guardai attorno, ma era troppo buio per notare alcunché, eccezion fatta per le sagome indistinte degli alberi che si addensavano ai bordi della strada. Non eravamo più in città.
«Bella?», chiese, misurando il più possibile la voce.
«Sì?». La mia era ancora roca. Cercai di schiarirmi la gola in silenzio.
«Tu stai bene?». Continuava a guardare altrove, ma la furia sul suo volto era evidente.
«Sì», mormorai io.
«Per favore, fai qualcosa per distrarmi», ordinò lui.
«Che cosa?».
Fece un breve sospiro.
«Chiacchiera di qualcosa di poco importante finché non mi calmo», chiarì, chiudendo gli occhi e pizzicandosi alla base del naso con il pollice e l’indice.
«Uhm». Iniziai a mettere sottosopra il mio cervello in cerca di qualcosa di futile. «Forse domani prima che inizino le lezioni investirò Tyler Crowley».
Teneva ancora gli occhi serrati, ma gli angoli della bocca gli si tesero in un sorriso.
«Perché?».
«Va dicendo a tutti che mi porterà al ballo di fine anno: o è impazzito, oppure sta ancora cercando di scusarsi per avermi quasi ammazzata... be’, ti ricordi. E secondo lui quel ballo è chissà perché il modo migliore per farlo. Perciò, immagino che se metterò la sua vita a repentaglio saremo pari e non si sentirà più in dovere di risarcirmi. Non ci tengo ad avere nemiche, e probabilmente anche Lauren smetterebbe di tormentarmi se lui mi lasciasse perdere. Mi toccherà fare a pezzi la sua Sentra, credo. È un guaio, perché senza auto non potrà dare a nessuno un passaggio per il ballo di fine anno...».
«M’era giunta voce». Sembrava più tranquillo.
«Fino a te?», chiesi incredula, in un nuovo accesso d’ira. «Be’, forse se resta paralizzato dal collo in giù non potrà nemmeno partecipare, al ballo», bofonchiai, mettendo a punto il mio piano.
Edward tirò un sospiro e finalmente aprì gli occhi.
«Va meglio?».
«Non proprio».
Attesi inutilmente che parlasse. Con la testa appoggiata al sedile, fissava il tetto dell’auto. La sua espressione era rigida.
«Cosa c’è che non va?». La mia voce fu un sussurro.
«Ogni tanto ho dei problemi di impulsività, Bella». Anche lui parlò sottovoce, e i suoi occhi, mentre guardava fuori dal finestrino, divennero due fessure. «Ma non sarebbe affatto una buona cosa fare marcia indietro e assalire quei...». Non terminò la frase, guardò altrove, sforzandosi per un istante di tenere a bada la rabbia. «Perlomeno», riprese, «è ciò di cui sto tentando di convincermi».
«Oh». Malgrado la mia non fosse certo una risposta all’altezza della situazione, non riuscii a dire niente di meglio.
Restammo di nuovo in silenzio. Diedi un’occhiata all’orologio sul cruscotto. Erano le sei e mezzo passate.
«Jessica e Angela saranno preoccupate», sussurrai. «Mi stavano aspettando».
Lui rimise in moto senza aggiungere nulla, e con una manovra sicura puntò di nuovo a tutta velocità verso il centro di Port Angeles. In un baleno rispuntò la luce dei lampioni; eravamo troppo veloci, ma scorrevamo agilmente tra le auto che percorrevano lente la strada del molo. Trovò un parcheggio parallelo al marciapiede, era angusto, mi pareva troppo stretto per la Volvo, ma Edward ci si infilò senza sforzo, al primo tentativo. Guardai fuori dal finestrino e vidi l’insegna de La Bella Italia e Jess e Angela che procedevano a passo veloce e affrettato, davanti a noi.
«Come facevi a sapere dove...», cominciai, ma poi mi limitai a scuotere la testa. Sentii la portiera che si apriva e, voltandomi, lo vidi scendere.
«Cosa fai?».
«Ti porto fuori a cena». Cercava di sorridere, ma il suo sguardo era ancora severo. Scese dall’auto sbattendo la portiera. Io mi districai dalla cintura di sicurezza e lo seguii. Mi aspettava sul marciapiede.
Parlò prima che potessi aprire bocca. «Vai a fermare Jessica e Angela, non ho intenzione di rincorrere anche loro per Port Angeles. Non credo che riuscirei a trattenermi, se dovessi imbattermi di nuovo nei tuoi amichetti».
Il tono minaccioso della sua voce mi fece venire i brividi.
«Jess! Angela!», urlai, sbracciandomi per farmi notare. Mi videro e mi corsero incontro, con un’espressione che passò dal palese sollievo alla sorpresa, quando notarono chi mi stava accanto. Si arrestarono a pochi metri.
«Dove sei stata?». Jessica sembrava diffidente.
«Mi sono persa», fui costretta ad ammettere. «E poi ho incontrato Edward». Lo indicai.
«Vi disturba se mi unisco a voi?», chiese lui, con la sua voce vellutata e irresistibile. A giudicare dai loro volti stupiti, era la prima volta che riservava quel trattamento alle mie amiche.
«Ehm... certo che no», sussurrò Jessica.
«Uhm, in realtà, Bella, abbiamo già mangiato mentre ti aspettavamo... scusaci», confessò Angela.
«Non c’è problema... non ho fame». Mi strinsi nelle spalle.
«Penso che invece dovresti mangiare qualcosa». La voce di Edward era bassa ma piena di autorità. Alzò lo sguardo verso Jessica e si fece più deciso. «Vi dispiace se accompagno io a casa Bella, stasera? Così non sarete costrette ad aspettarla mentre mangia».
«Uhm, non c’è problema, credo...», e si morse un labbro, cercando di indovinare dalla mia espressione se fossi d’accordo o no. Le feci l’occhiolino. Non desideravo altro che restare con il mio eterno salvatore. C’erano un sacco di domande con cui avrei potuto bombardarlo soltanto se fossimo rimasti soli.
«D’accordo». Angela fu più sveglia di Jessica. «Ci vediamo domani, Bella... Edward». Prese per mano Jess e la trascinò verso l’auto, che vedevo poco più in là, a poche traverse di distanza, parcheggiata lungo First Street. Non appena furono salite, Jess si voltò a salutarci, piena di curiosità. Restituii il saluto, e attesi che si fossero allontanate prima di voltarmi verso Edward.