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«Siamo pronti per il conto, grazie». Ora la sua voce era più debole e stanca, segnata dallo sforzo della conversazione. La cameriera ne rimase disorientata. Lui alzò lo sguardo, in attesa.

«C-certo», balbettò lei, «ecco qui». Estrasse una cartellina di cuoio dalla tasca anteriore del grembiule nero e gliela porse.

Edward aveva già preparato una banconota. La infilò nella cartellina e la restituì alla cameriera.

«Niente resto», le sorrise. Poi si alzò e io lo seguii, inciampando nei miei piedi.

Lei gli si rivolse con l’ennesimo sorriso tentatore: «Buona serata a voi».

La ringraziò senza staccarmi gli occhi di dosso. Io sorridevo sotto i baffi.

Camminò al mio fianco fino alla porta, vicinissimo eppure attento a non toccarmi. Ricordai ciò che Jessica aveva detto della sua relazione con Mike, di come fossero quasi alla fase del primo bacio. Sospirai. Probabilmente Edward mi sentì, perché mi guardò curioso. Abbassai gli occhi sul marciapiede, lieta che non fosse capace di leggermi nel pensiero, dopotutto.

Aprì la portiera e attese che salissi in auto, dopodiché la richiuse dolcemente. Lo guardai camminare di fronte alla macchina, stupefatta per l’ennesima volta di quanto fosse aggraziato. Ormai avrei dovuto esserci abituata, e tuttavia non era così. Avevo la sensazione che Edward fosse il genere di persona a cui era impossibile abituarsi.

Salito in auto, mise in moto e alzò il riscaldamento al massimo. La temperatura era scesa, probabilmente il maltempo stava tornando. Il suo giaccone mi teneva caldo, però, e quando sembrava che lui non mi notasse respiravo il suo profumo.

Edward si inserì nel flusso del traffico, quasi senza guardarsi attorno, scartando e svoltando bruscamente fino a imboccare l’autostrada.

Quando riaprì bocca, fu molto eloquente: «Adesso tocca a te».

9

Teoria

«Posso farti un’ultima domanda?», chiesi, mentre Edward correva a tutta velocità lungo la strada silenziosa. Concentrarsi sulla guida era l’ultimo dei suoi pensieri.

Sbuffò.

«Una sola», rispose, guardingo.

«Be’... hai detto di avere intuito che mi ero diretta a sud, anziché entrare in libreria. Mi chiedevo soltanto come avessi fatto».

Guardò altrove, ponderando la risposta.

«Pensavo che avessimo abolito gli atteggiamenti evasivi».

Accennò un sorriso.

«D’accordo. Ho seguito il tuo odore». Tacque subito, fissando la strada, e mi lasciò un po’ di tempo per riprendere fiato. Non trovai nessuna risposta sensata alle sue parole, che archiviai in attesa di indagini future. Non ero pronta a lasciar cadere il discorso, ora che finalmente mi stava dando qualche spiegazione.

Cercai di guadagnare tempo. «Inoltre, non hai ancora risposto a una delle mie prime domande...».

Mi lanciò un’occhiata di rimprovero. «Quale?».

«Come funziona la faccenda della lettura del pensiero? Riesci a leggere la mente di chiunque, ovunque? Come fai? Anche i tuoi fratelli...?». Mi sentivo una stupida a chiedere delucidazioni su una cosa così irreale, assurda.

«Una domanda sola, hai detto», puntualizzò. Intrecciai le dita e rimasi a guardarlo, in attesa.

«No, è una dote soltanto mia. E non riesco a sentire tutti, ovunque. Devo essere piuttosto vicino alle persone che leggo. Ma più familiare è una “voce”, maggiore è la distanza a cui la avverto. Mai più di qualche chilometro, comunque». Per un istante tacque, pensoso. «È un po’ come essere in una grande sala piena di persone che parlano contemporaneamente. Una specie di rumore di fondo, il ronzio confuso delle voci. Finché non mi concentro su una voce sola e la metto a fuoco: allora sento cosa sta pensando. Il più delle volte semplicemente ignoro, escludo tutto: rischia di distrarmi troppo. Così poi è più facile sembrare normale», a quella parola, aggrottò le ciglia, «ed evitare di rispondere per sbaglio ai pensieri delle persone, anziché alle loro parole».

«Secondo te, perché non riesci a sentirmi?».

Mi fissò con uno sguardo enigmatico.

«Non lo so. Il mio sospetto è che la tua mente funzioni in modo diverso da tutte le altre. Come se i tuoi pensieri trasmettessero in AM e io ricevessi solo in FM». Mi sorrise, improvvisamente divertito.

«La mia mente non funziona come dovrebbe? Sono una specie di mostro?». Mi preoccupai di quell’ipotesi più del dovuto... probabilmente perché le sue supposizioni avevano fatto centro. Avevo sempre sospettato qualcosa del genere in me, e mi sentii imbarazzata di fronte a tale conferma.

«Io sento voci nella mia testa, e tu temi di essere il mostro?», rise. «Stai tranquilla, è solo una teoria...». Si fece serio: «Il che ci riporta a te».

Sospirai. Da dove potevo iniziare?

«Abbiamo abolito le risposte evasive, no?».

Per la prima volta staccai lo sguardo dal suo viso, per cercare le parole giuste. L’occhio mi cadde sul tachimetro.

«Santo cielo! Rallenta!».

«Cosa c’è?». Era stupito, però non decelerava.

«Stai andando a centosessanta!». Non smettevo di gridare. Lanciai un’occhiata di panico fuori dal finestrino, ma c’era troppo buio per decifrare il panorama. La strada era illuminata soltanto nella lunga striscia di luci bluastre dei fari. La foresta che la costeggiava era un muro nero, solido come una barriera d’acciaio, se fossimo usciti di strada a quella velocità.

«Rilassati, Bella». Alzò gli occhi al cielo, senza decelerare.

«Stai cercando di ucciderci?».

«Non usciremo di strada».

Cercai di modulare meglio la mia voce. «Perché tutta questa fretta?».

«Guido sempre cosi». Si voltò per sorridermi, ammiccante.

«Guarda davanti!».

«Non ho mai fatto incidenti, Bella. Non ho mai preso neanche una multa». Sorrise e si picchiettò la fronte. «Segnalatore radar incorporato».

«Divertente», risposi, irritata. «Charlie è un poliziotto, ricordi? Da piccola mi è stato insegnato a rispettare il codice della strada. Inoltre, se ci trasformi in una ciambella di Volvo arrotolata a un albero, l’unico in grado di uscirne senza un graffio sei tu».

«Probabile», concordò, con una risata secca e breve. «Tu invece no». Sospirò, e con mio gran sollievo la lancetta iniziò a spostarsi attorno ai cento. «Contenta?».

«Quasi».

«Odio andare piano», bofonchiò.

«Così è piano?».

«Fine dei commenti sulla mia guida. Sto ancora aspettando la tua ultima teoria».

Mi morsi un labbro. Non mi aspettavo tanta gentilezza nei suoi occhi di miele.

«Non riderò, lo prometto».

«In realtà temo piuttosto che ti arrabbierai con me».

«È una teoria così brutta?».

«Abbastanza, sì».

Restò in attesa. Mi guardavo le mani, perciò non vedevo la sua espressione.

«Prosegui». Sembrava calmo.

«Non so da dove cominciare».

«Perché non cominci dall’inizio... Hai detto che questa teoria non è tutta farina del tuo sacco».

«No».

«A cosa ti sei ispirata? Un libro? Un film?».

«No... è stato sabato, alla spiaggia». Arrischiai un’occhiata al suo viso. Sembrava interdetto. «Ho incontrato per caso un vecchio amico di famiglia, Jacob Black. Suo padre e Charlie si frequentano da quando ero bambina».

Continuava ad apparire confuso.

«Suo padre è un anziano dei Quileutes». Lo osservai con attenzione. Non batteva ciglio. «Abbiamo fatto una passeggiata...», sorvolai sul mio comportamento malizioso, «e lui mi ha raccontato vecchie leggende locali, probabilmente per spaventarmi. Me ne ha raccontata una...», mi fermai, esitando.

«Continua».

«...che parla di vampiri», bisbigliai. A quel punto, non riuscivo a guardarlo in faccia. Ma notai le sue nocche stringersi sul volante.

«E hai pensato immediatamente a me?». Manteneva la calma.

«No. Lui... ha citato la tua famiglia».

Restò zitto, con gli occhi fissi sulla strada.

All’improvviso sentii che dovevo proteggere Jacob.

«Secondo lui era solo una sciocca superstizione», aggiunsi svelta. «Non pensava che ci avrei ricamato sopra». Ma non mi sembrò abbastanza, dovevo confessare: «È stata colpa mia, l’ho costretto a raccontarmela».