«Perché?».
«Lauren ha fatto il tuo nome, così, per provocarmi. E un ragazzo più grande, della tribù, le ha risposto che la tua famiglia non entra nella riserva, ma il suo tono evidentemente nascondeva qualcosa. Perciò sono rimasta sola con Jacob e gliel’ho estorto con l’inganno», ammisi a capo chino.
Incredibilmente, iniziò a ridere. Io alzai gli occhi. Rideva, ma il suo sguardo era furente, fisso davanti a sé.
«Con l’inganno? E come?».
«Ho fatto la smorfiosa con lui, e ha funzionato meglio di quanto io stessa pensassi». Rievocando la scena, io per prima ero incredula.
«Mi sarebbe piaciuto assistere». Rise a mezza voce. «E poi mi accusi di fare colpo sulle persone... povero Jacob Black».
Arrossii e guardai il panorama notturno fuori dal finestrino.
«E allora cos’hai fatto?», chiese lui, subito dopo.
«Una breve ricerca su Internet».
«E hai trovato conferma ai tuoi dubbi?». Sembrava molto poco interessato. Ma non allentava la presa ferrea sul volante.
«No, non mi quadrava niente. Più che altro si trattava di stupidaggini. E poi...».
«Poi cosa?».
«Ho deciso che non m’importa», sussurrai.
«Non ti importa?». Il suo tono mi convinse ad alzare gli occhi: avevo finalmente fatto breccia al di là della maschera costruita con tanta cura. Era incredulo, la rabbia che temevo lo sfiorava appena.
«No», dissi sottovoce. «Non m’importa cosa sei».
Mi parlò con un filo di cattiveria, come per prendermi in giro: «Non t’importa se sono un mostro? Se non sono umano?».
«No».
Tacque, lo sguardo fisso sul parabrezza. La sua espressione era vuota e fredda.
«Ti ho fatto arrabbiare», dissi. «Non avrei dovuto aprire bocca».
«No», rispose, ma la voce era dura come la sua espressione. «Preferisco sapere cosa pensi... anche se ciò che pensi è assurdo».
«Quindi mi sto sbagliando di nuovo?».
«Non intendevo questo. “Non m’importa!”», ripeté le mie parole digrignando i denti.
«È così allora?».
«T’interessa?».
Respirai a fondo.
«Non proprio», attesi un istante, prima di continuare: «Ma sono curiosa». Se non altro, non avevo perso il controllo della voce.
Tutto a un tratto, mi sembrò rassegnato. «Cosa vuoi sapere?».
«Quanti anni hai?».
«Diciassette», rispose istantaneamente.
«E da quanto tempo hai diciassette anni?».
Guardava la strada, con le labbra contratte. Alla fine, si rassegnò a rispondere: «Da un po’».
«D’accordo». Sorrisi, contenta che finalmente fosse sincero. Mi scrutò come quando era preoccupato che mi venisse un attacco di panico. Continuai a sorridere per rassicurarlo, e lui si fece scuro in volto.
«Non ridere se te lo chiedo, ma... come fai a uscire di casa quando è giorno?».
Rise. «Leggenda».
«Non ti sciogli al sole?».
«Leggenda».
«Dormi dentro una bara?».
«Leggenda». Per un momento esitò, poi proseguì con un tono di voce strano: «Io non dormo».
Mi ci volle un minuto per digerire quella risposta. «Mai?».
«Mai», confermò, con un filo di voce. Si voltò verso di me, mesto. I suoi occhi dorati catturarono i miei, facendomi smarrire il filo del discorso. Sostenni il suo sguardo finché non lo volse altrove.
«Non mi hai ancora fatto la domanda più importante». Era tornato freddo e sulla difensiva.
Ero ancora imbambolata. Cercai di riprendermi. «Quale sarebbe?».
«Non sei preoccupata della mia dieta?», chiese, sarcastico.
«Ah... quella».
«Sì, quella. Non sei curiosa di sapere se mi nutro di sangue?».
Mi ritrassi appena. «Be’, Jacob mi ha detto qualcosa».
«Cosa ti ha detto?», chiese, senza tradire nessuna emozione.
«Ha detto che voi non... andate a caccia di umani. Ha detto che la tua famiglia non è considerata pericolosa, perché vi cibate solo di animali».
«Ha detto che non siamo pericolosi?», sembrava profondamente scettico.
«Non esattamente. Ha detto che non vi ritengono pericolosi. Ma che per non correre rischi, i Quileutes ancora oggi non vi vogliono nel loro territorio».
Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, ma non ero sicura che stesse osservando la strada.
«Ha detto la verità? Riguardo a voi e agli umani, dico». Cercai di risultare il più tranquilla possibile.
«I Quileutes hanno una buona memoria», sussurrò.
La presi come una conferma.
«Non fidarti troppo, però. Fanno bene a mantenere le distanze. Siamo ancora pericolosi».
«Non capisco».
«Ci proviamo», spiegò, lentamente. «Di solito riusciamo molto bene in ciò che facciamo. Ogni tanto compiamo qualche errore. Io, per esempio, non dovrei restare solo con te».
«Questo è un errore?». Mi accorsi della mia voce triste, senza capire se anche lui l’avesse notata.
«Un errore molto pericoloso», mormorò.
A quel punto tacemmo entrambi. Guardavo i fasci di luce dei fari curvarsi assieme alla strada. Erano troppo veloci, sembravano irreali, come in un videogioco. Il tempo scorreva lesto come la strada scura alle nostre spalle, e avevo il terrore che quella fosse la mia ultima occasione per restare sola con lui, così, apertamente, senza muri a separarci. Le sue parole alludevano a un’idea che non volevo prendere in considerazione. Non potevo sprecare nemmeno un istante.
«Vai avanti», chiesi, disperata, incurante di cosa avrebbe detto, solo per sentirlo parlare di nuovo.
Mi lanciò un’occhiata, stupito dal tono mutato della mia voce. «Cos’altro vuoi sapere?».
«Dimmi perché vai a caccia di animali, anziché di esseri umani», suggerii, ancora con lo sconforto nella voce. Avevo gli occhi lucidi, e mi sforzavo di combattere il senso di pena che voleva prendere il sopravvento.
«Non voglio essere un mostro». Parlò a voce bassissima.
«Ma gli animali non ti bastano?».
Fece una pausa. «Non ho verificato, ovviamente, ma immagino che sia come una dieta a base solo di tofu e latte di soia. Per scherzare, ci definiamo “vegetariani”. Gli animali non placano del tutto la fame, o meglio, la sete. Ma riusciamo a mantenerci in forze. Il più delle volte». La sua voce tornò minacciosa: «Talvolta è davvero difficile».
«Anche in questo momento?».
Sospirò. «Sì».
«Però adesso non hai fame», dissi, ed era una constatazione, non una domanda.
«Cosa te lo fa pensare?».
«I tuoi occhi. Ho una teoria, te l’ho detto. Ho notato che le persone - soprattutto gli uomini - diventano indisponenti, quando hanno fame».
Si lasciò scappare una risata leggera. «Sei una brava osservatrice, eh?».
Non risposi: restai semplicemente in ascolto della sua risata, per conservarne il ricordo.
«Lo scorso weekend sei andato a caccia con Emmett?», chiesi, quando tornò il silenzio.
«Sì». Per un secondo esitò, indeciso se proseguire. «Non avrei voluto andare via, ma ne avevo bisogno. È più facile starti vicino quando non ho sete».
«Perché non volevi andarci?».
«Starti lontano... mi rende... ansioso». Il suo sguardo era dolce ma intenso, e mi sciolse. «Non scherzavo, quando ti ho chiesto di badare a non cadere nell’oceano o a non farti investire, giovedì. Per tutto il fine settimana sono rimasto in pensiero. E dopo stasera, mi sorprende che tu sia sopravvissuta al weekend senza farti un graffio». Scosse il capo e poi parve ricordarsi di qualcosa: «Be’, non proprio».
«Cosa?».
«Le tue mani». Notai i graffi quasi invisibili sui miei polsi. Non perdeva un particolare.
«Sono caduta», sospirai.
«Lo immaginavo». Le labbra si incurvarono in un sorriso. «È anche vero che, per i tuoi standard, avrebbe potuto andare peggio, ed è proprio questo che mi ha tormentato, mentre ero lontano da te. Sono stati tre giorni molto lunghi. Ho rischiato di far saltare i nervi a Emmett». Mi rivolse un sorriso dolente.