Dopo due lezioni, iniziai a riconoscere qualche volto. C’era sempre qualcuno più coraggioso degli altri che si presentava e mi chiedeva come trovassi Forks. Io cercavo di essere diplomatica, ma perlopiù mentivo. Se non altro, non ebbi mai bisogno della mappa.
Una ragazza si sedette accanto a me sia durante la lezione di trigo che in quella di spagnolo, e a pranzo mi accompagnò in mensa. Era piccola, molti centimetri più bassa del mio metro e sessantacinque, ma i suoi capelli ricci e arruffati compensavano quasi tutto il divario. Non ricordavo il suo nome, perciò sorridevo e annuivo mentre lei ciarlava dei professori e delle lezioni. Non cercai nemmeno di seguire il suo discorso.
Ci sedemmo in fondo a un tavolo pieno di suoi amici, che mi presentò. Dimenticavo i loro nomi un istante dopo averli sentiti. Sembravano stupiti dall’audacia che mostrava parlando con me. Eric, il ragazzo di inglese, mi salutò con la mano dall’altro lato della sala.
Fu in quel momento, seduta a pranzo, impegnata a conversare con sette estranei curiosi, che li vidi per la prima volta.
Erano seduti nell’angolo più lontano e isolato della mensa. Erano in cinque. Non parlavano e non mangiavano, benché ognuno di loro avesse di fronte a sé un vassoio pieno di cibo, intatto. Non mi stavano squadrando, a differenza della maggior parte degli altri studenti, perciò potevo osservarli tranquillamente, senza temere di incontrare uno sguardo un po’ troppo curioso. Ma non furono questi particolari ad attirare, e catturare, la mia attenzione.
Non si somigliavano affatto. Dei tre ragazzi, uno era grosso, nerboruto come un sollevatore di pesi professionista, i capelli neri e ricci. Uno era più alto e magro, ma comunque muscoloso, biondo miele. Il terzo era smilzo, meno robusto, con i capelli rossicci e spettinati. Sembrava molto più giovane degli altri, che avrebbero potuto anche essere studenti universitari, o addirittura insegnanti.
Le ragazze erano sedute di fronte a loro. Quella più alta era statuaria. Il genere di bellezza che si vede nei cataloghi di costumi da bagno, di quelle che infliggono duri colpi all’autostima delle altre donne. Aveva capelli dorati, che le accarezzavano la schiena con un’onda delicata. La ragazza più bassa era una specie di folletto, magrissima, dai tratti molto delicati. I suoi capelli erano neri corvini, corti e scompigliati.
Eppure, c’era qualcosa che li rendeva tutti somiglianti. Ognuno di loro era pallido come il gesso, erano i più pallidi tra tutti gli studenti di quella città senza sole. Più pallidi di me, l’albina. Tutti avevano occhi molto scuri, a dispetto del diverso colore dei capelli, e cerchiati da ombre pesanti, violacee, simili a lividi. Quasi avessero tutti trascorso la notte senza chiudere occhio, o si stessero riprendendo da una rissa. Eppure, il resto dei loro lineamenti era dritto, perfetto, spigoloso.
Ma non era questo il motivo per cui non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Li fissavo perché i loro volti, così differenti, così simili, erano tutti di una bellezza devastante, inumana. Erano volti che non ci si aspetterebbe mai di vedere se non, forse, sulle pagine patinate di un giornale di moda. O dipinti da un vecchio maestro sotto fattezze di angeli. Difficile decidere chi fosse il più bello: forse la ragazza bionda e perfetta, forse il ragazzo con i capelli di bronzo.
Tutti guardavano altrove, lontano dal loro tavolo, lontano dagli altri studenti, lontano da qualsiasi cosa, per quel che potevo capire. Mentre li osservavo, la ragazza minuta si alzò con il vassoio in mano - bibita ancora sigillata, mela senza l’ombra di un morso - e si allontanò con una falcata veloce, aggraziata, da atleta. Meravigliata da quel passo di danza la guardai finché, rovesciato il contenuto del vassoio nella spazzatura, sparì dalla porta secondaria a una velocità impensabile. Il mio sguardo guizzò di nuovo sugli altri, seduti esattamente come prima.
«E quelli chi sono?», chiesi alla ragazza della lezione di spagnolo, di cui avevo dimenticato il nome.
Mentre lei alzava lo sguardo per capire di chi parlassi - ma forse per il mio tono di voce l’aveva già intuito -, lui la guardò, il più magro, il più giovane, quello con l’aria da ragazzino. Osservò la mia vicina per non più di una frazione di secondo, e poi i suoi occhi scuri lampeggiarono nei miei.
Distolse lo sguardo all’istante, ancora più in fretta di me, che avvampando dall’imbarazzo, chinai subito il capo. In quella fulminea schermaglia di occhiate, la sua espressione rimase neutra, come se la mia vicina avesse pronunciato il suo nome e lui avesse alzato gli occhi involontariamente, ma già deciso a non rispondere.
La ragazza fece una risatina imbarazzata e come me guardò verso il tavolo.
«Sono Edward ed Emmett Cullen, assieme a Rosalie e Jasper Hale. Quella che se n’è andata era Alice Cullen; vivono tutti assieme al dottor Cullen e sua moglie», disse, con un filo di voce.
Guardai di sottecchi quel bel ragazzo, che ora osservava il proprio vassoio e faceva a pezzi una ciambella con le dita lunghe e pallide. La sua bocca si muoveva velocissima, le labbra perfette si aprivano appena. Gli altri tre continuavano a guardare altrove, eppure mi sembrava che stesse parlando, piano, con loro.
Nomi strani, poco diffusi, pensai. Nomi da nonni. Ma forse qui andava di moda: nomi da cittadina di provincia? Infine ricordai che la mia vicina si chiamava Jessica, un nome comunissimo. A casa avevo due compagne di classe che si chiamavano Jessica.
«Sono... molto carini», mi sforzai di minimizzare, ma non ero credibile.
«Sì!», concordò Jessica con un’altra risatina. «Però stanno assieme. Voglio dire Emmett e Rosalie, e Jasper e Alice. E vivono assieme». Nella sua voce si sentivano tutta l’indignazione e la condanna della cittadina, così almeno sembrava al mio orecchio critico. In realtà, onestamente, dovevo ammettere che anche a Phoenix sarebbe stato un pettegolezzo ghiotto.
«Quali sono i Cullen?», chiesi. «Non sembrano parenti...».
«Oh, non lo sono. Il dottor Cullen è molto giovane, ha trent’anni, forse meno. Sono tutti figli adottivi. Gli Hale sì sono davvero fratello e sorella, gemelli - i due biondi - e sono in affidamento».
«Sembrano un po’ grandi per essere ancora in affidamento».
«Adesso sì, Jasper e Rosalie hanno diciotto anni, ma vivono con Mrs Cullen da quando ne hanno otto. È una specie di zia o qualcosa del genere».
«È davvero un bel gesto... prendersi cura di tutti quei ragazzi, nonostante siano giovani e tutto il resto».
«Direi di sì», ammise Jessica senza troppo entusiasmo, e mi fece intuire che per un motivo o per l’altro il dottore e sua moglie non le piacevano. A giudicare dagli sguardi che lanciava ai loro figli adottivi, doveva essere una questione di gelosia. «Comunque penso che Mrs Cullen non possa avere bambini», aggiunse, come se ciò sminuisse la bontà della signora.
Durante la conversazione, non potevo fare a meno di lanciare continuamente svelte occhiate al tavolo della strana famiglia. Continuavano a guardare il muro senza mangiare.
«Hanno sempre abitato a Forks?», chiesi. Mi sarei certo accorta di loro, durante una delle mie vacanze lì.
«No», rispose lei, e il tono di voce sottintendeva che la risposta doveva essere ovvia anche per una nuova arrivata come me. «Si sono trasferiti un paio d’anni fa, vengono da un qualche posto in Alaska».
Istintivamente provai compassione e sollievo. Compassione perché, belli com’erano, restavano degli emarginati, chiaramente malvisti. Sollievo perché non ero l’unica nuova arrivata, né di certo, e sotto nessun punto di vista, la più interessante.
Mentre li studiavo, il più giovane dei Cullen alzò lo sguardo e incrociò il mio, e stavolta la sua espressione era evidentemente incuriosita. Mi voltai di scatto, e allora mi sembrò di notare che il ragazzo fosse stranamente sorpreso, quasi deluso.
«Chi è quello con i capelli rossicci?», chiesi. Lo sbirciavo con la coda dell’occhio, lui continuava a fissarmi, ma senza squadrarmi come avevano fatto tutti gli altri studenti. La sua espressione era leggermente frustrata. Abbassai di nuovo lo sguardo.