«Si chiama Edward. È uno schianto, ovviamente, ma non sprecare il tuo tempo. Non esce con nessuna. A quanto pare qui non ci sono ragazze abbastanza carine per lui», disse, con aria di disprezzo. La volpe e l’uva. Chissà quando era toccato a lei essere rifiutata.
Mi morsi un labbro per non riderle in faccia. Poi guardai di nuovo verso il ragazzo. I suoi occhi erano rivolti altrove, ma le guance mi parvero alzarsi come se stesse ridendo anche lui.
Dopo qualche minuto, i quattro si alzarono da tavola assieme. Tutti si muovevano con una grazia che richiamava l’attenzione, anche il più grosso e nerboruto. Osservarli era fonte di turbamento. Quello che si chiamava Edward non mi guardò più.
Rimasi seduta a tavola con Jessica e i suoi amici più di quanto mi sarei trattenuta se fossi stata da sola. Avevo il terrore di arrivare tardi alle lezioni del primo giorno di scuola. Una delle mie nuove conoscenti, che con un certo buon senso mi ricordò il suo nome, Angela, aveva biologia II, come me. Ci dirigemmo verso l’aula in silenzio. Anche lei era timida.
Quando entrammo in classe, Angela andò a sedersi a un tavolo nero per gli esperimenti, uguale a quelli cui ero abituata. Aveva già un compagno. Anzi, tatti i tavoli tranne uno erano occupati. Accanto al corridoio centrale, riconobbi gli strani capelli di Edward Cullen, seduto accanto all’unico posto libero.
Camminando lungo le file di banchi per presentarmi al professore e fargli firmare il modulo, lo tenevo d’occhio, di sottecchi. Quando gli passai accanto, all’improvviso si irrigidì. Mi fissò ancora una volta, con la più strana delle espressioni sul volto: era ostile, furioso. Guardai subito altrove, sbalordita, rossa di vergogna. Inciampai su un libro e per non cadere fui costretta a reggermi a un tavolo. La ragazza seduta lì rise sotto i baffi.
Mi ero accorta che i suoi occhi erano neri - neri come il carbone.
Il signor Banner firmò il modulo e mi diede un libro, senza perdersi in presentazioni. Sentivo che saremmo andati molto d’accordo. Ovviamente, non avendo scelta, mi fece sedere nell’unico posto libero, al centro dell’aula. Tenni basso lo sguardo, mentre mi accomodavo vicino a lui, ancora scossa dall’occhiata ostile di poco prima.
Non osavo guardarlo, mentre sistemavo il libro sul tavolo e mi mettevo a sedere, ma con la coda dell’occhio lo vidi cambiare posizione. Si stava allontanando da me, seduto sul bordo della sedia e voltato dall’altra parte, come per evitare una tremenda puzza. Senza farmi notare, mi annusai i capelli. Profumavano di fragola, come il mio shampoo preferito. Come odore mi sembrava piuttosto innocente. Lasciai cadere i capelli sulla mia spalla destra, a chiudere il sipario tra di noi, e cercai di prestare attenzione all’insegnante.
Purtroppo la lezione era sull’anatomia cellulare, un argomento che avevo già studiato. In ogni caso presi appunti, senza staccare gli occhi dal quaderno.
Non potevo trattenermi dallo sbirciare di tanto in tanto, attraverso la ciocca di capelli, verso lo strano ragazzo che mi era seduto accanto. Non si rilassò nemmeno per un istante durante l’intera lezione e rimase rigido, sull’orlo della sedia, il più lontano possibile da me. Riuscivo a vedere il pugno chiuso appoggiato sulla gamba sinistra, i tendini in tensione sotto la pelle pallida. Non riusciva a rilassare neanche quelli. Teneva le maniche della camicia bianca arrotolate fino al gomito, e l’avambraccio che ne spuntava era sorprendentemente sodo e muscoloso. Non era affatto smilzo come mi era sembrato accanto al fratello corpulento.
La lezione pareva durare più delle altre. Era perché finalmente la giornata stava finendo, o perché aspettavo che quel pugno si aprisse? Non lo fece; restò sempre talmente immobile che sembrava non respirasse nemmeno. Cosa c’era che non andava? Si comportava sempre così? Ripensai alle malignità di Jessica, a pranzo. Forse non aveva esagerato con il risentimento.
Non poteva essere a causa mia. Non sapeva niente di niente di me.
Sbirciai di nuovo verso di lui, e me ne pentii. Mi stava di nuovo squadrando, con gli occhi neri pieni di disprezzo. Mentre mi ritraevo, stretta nella sedia, improvvisamente pensai a quel modo di dire: se gli sguardi potessero uccidere...
In quel momento la campana prese a squillare, io sobbalzai ed Edward Cullen si alzò dal suo posto con un movimento fluido - era molto più alto di quanto avessi immaginato - dandomi le spalle, e prima che chiunque altro avesse lasciato la sedia era già fuori dalla classe.
Io rimasi pietrificata al mio posto, incredula, a guardarlo. Che cattivo. Non era giusto. Iniziai a raccogliere le mie cose lentamente, cercando di arginare la rabbia che mi aveva presa, per non mettermi a piangere. Per qualche motivo, il mio umore e i miei occhi erano legati a doppio filo. Di solito, quando ero arrabbiata piangevo, una reazione umiliante.
«Sei tu Isabella Swan?», chiese una voce maschile.
Alzai lo sguardo e vidi un ragazzo carino, con il viso da bambino, i capelli biondo cenere raccolti in punte ordinate, che mi sorrideva con aria amichevole. Evidentemente, lui non pensava che avessi un cattivo odore.
«Bella», precisai con un sorriso.
«Io sono Mike».
«Ciao, Mike».
«Serve aiuto per trovare la prossima lezione?».
«Devo andare in palestra, credo di potercela fare».
«Ci vado anch’io». Sembrava entusiasta, benché una coincidenza del genere non fosse poi strana, in una scuola così piccola.
Uscimmo dall’aula assieme. Era un chiacchierone, e fu soprattutto lui a parlare, per mia fortuna. Aveva vissuto in California fino all’età di dieci anni, perciò capiva come mi sentivo, lontana dal sole. Scoprii che frequentava anche le mie lezioni di inglese. Era la persona più gradevole tra le nuove conoscenze di quel giorno.
Però, mentre entravamo in palestra, chiese: «Scusa, ma hai accoltellato Edward Cullen con la matita, o cosa? Non l’ho mai visto comportarsi così».
Io rimpicciolii. Così, non ero stata l’unica ad accorgermene. E a quanto pare, quello non era il solito comportamento di Edward Cullen. Decisi di fare la finta tonta.
«Parli del ragazzo seduto accanto a me durante biologia?», chiesi ingenuamente.
«Sì», rispose. «Sembrava gli fosse venuto un attacco di qualcosa».
«Non so. Non gli ho nemmeno rivolto la parola».
«È un tipo strano». Mike continuava a ronzarmi attorno, anziché dirigersi verso lo spogliatoio. «Se io fossi stato tanto fortunato da esserti seduto accanto, ti avrei rivolto la parola».
Prima di voltarmi verso l’entrata dello spogliatoio femminile gli sorrisi. Era cortese, e senza dubbio gli piacevo. Ma non era abbastanza per fare sbollire la mia rabbia.
L’insegnante di ginnastica, Mr Clapp, mi trovò una divisa ma non me la fece indossare, per quella lezione. A casa, ginnastica era obbligatoria solo per due anni. Qui, invece, per quattro. Forks era letteralmente il mio piccolo inferno personale.
Guardai quattro partite di pallavolo in contemporanea. Al ricordo di tutte le volte in cui mi ero fatta male giocando a pallavolo - e avevo fatto male a qualcun altro - mi venne una certa nausea.
Finalmente la campana suonò. Mi trascinai verso la segreteria per restituire il modulo. La pioggia si era calmata, ma il vento era forte e freddo. Mi strinsi nel giubbotto.
Quando entrai nell’ufficio caldo, fui sul punto di riuscirne immediatamente.
Di fronte a me, alla scrivania, c’era Edward Cullen. Riconobbi di nuovo quella massa arruffata di capelli color bronzo. Non sembrò accorgersi del mio ingresso. Io rimasi accanto al muro, in attesa che la segretaria si liberasse.
Stava discutendo con lei, con un tono di voce basso, seducente. Riuscii a captare l’argomento della discussione. Stava cercando di spostare biologia a un altro orario, qualsiasi altro orario.
Non potevo credere che fosse a causa mia. Doveva esserci qualche altra ragione, qualcosa successo prima che io entrassi in aula. Il suo atteggiamento doveva avere un motivo totalmente diverso. Era impossibile che quello sconosciuto potesse odiarmi in maniera tanto improvvisa e intensa.