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E mi lasciò sola.

«Edward!», dissi in un soffio.

Sentii il fantasma di una risatina, e poi nient’altro.

Mio padre fece scattare la serratura dell’ingresso.

«Bella?». Di solito mi innervosiva quando chiamava così: chi pensava di trovare? Tuttavia, stavolta non sembrò tanto fuori luogo.

«Sono qua». Sperai che il tono isterico della mia voce non fosse troppo evidente. Tolsi la cena dal microonde e mi accomodai a tavola, mentre lui entrava in cucina. Dopo una giornata assieme a Edward, il rumore dei suoi passi mi risultava fastidioso.

«Me ne dai un po’? Sono a pezzi». Si levò gli stivali coi piedi, sfilandoli dal tallone mentre si reggeva alla sedia di Edward.

Mi alzai, presi il piatto e lo portai dietro, ingozzandomi con un boccone mentre preparavo la cena a Charlie. Mi scottai la lingua. Nel riscaldare la sua porzione riempii due bicchieri di latte e trangugiai il mio per spegnere il fuoco. Posando il bicchiere sul tavolo mi accorsi che mi tremava la mano. Charlie si era seduto su quella stessa sedia, il contrasto tra lui e chi lo aveva preceduto era comico.

Gli porsi il piatto e mi ringraziò.

«Com’è andata oggi?», gli chiesi. Le parole mi uscirono frettolose; morivo dalla voglia di scappare in camera mia.

«Bene. Pesci a frotte... E tu? Hai fatto tutto quello che dovevi?».

«Non proprio, con questa bella giornata non avevo voglia di chiudermi in casa». Addentai un’altra forchettata di lasagne.

«Sì, è stata una bella giornata».

Come minimo, pensai tra me e me.

Terminato l’ultimo boccone, svuotai in un sorso ciò che restava del mio bicchiere di latte.

L’acume di Charlie mi sorprese: «Di fretta?».

«Sì, sono stanca. Vado a letto presto».

«Sembri piuttosto su di giri», commentò. Perché, perché aveva deciso di essere così attento proprio quella sera?

«Davvero?». Non riuscii a formulare una risposta migliore. Lavai i piatti alla svelta e li misi ad asciugare.

«È sabato», osservò.

Rimasi in silenzio.

«Non hai programmi per stasera?», chiese all’improvviso.

«No, papà, voglio soltanto dormire un po’».

«Non hai trovato il tuo tipo in questa città, eh?». Era diffidente, ma cercava di spacciarsi per indifferente.

«No, non ho notato ancora nessun ragazzo interessante». Cercai di non mettere troppa enfasi nella parola “ragazzo”, nel mio tentativo di essere onesta con Charlie.

«Pensavo che Mike Newton... me ne avevi parlato».

«Papà, è soltanto un amico».

«Be’, tu sei di un altro livello. Aspetta l’università, prima di iniziare la ricerca». Ogni padre sogna che sua figlia se ne vada di casa prima di sentire il richiamo degli ormoni.

«Mi sembra una buona idea», conclusi, dirigendomi verso le scale.

«’Notte, cara». Ero certa che sarebbe stato con le orecchie tese per tutta la sera, in attesa di quando mi avrebbe sentita scappare.

«Ci vediamo domattina, papà». Ci vediamo a mezzanotte, quando ti intrufolerai nella mia stanza per controllarmi.

Feci del mio meglio per salire le scale con un finto passo stanco e trascinato. Chiusi la porta della stanza con forza affinché Charlie la sentisse bene, e poi, in punta di piedi, colsi alla finestra. L’aprii e mi sporsi, nell’oscurità della sera, a scrutare le ombre impenetrabili degli alberi.

«Edward?», lo chiamai sottovoce. Mi sentivo un’idiota totale.

La risposta, una risatina smorzata, giunse alle mie spalle: «Sì?».

Mi voltai di scatto, coprendomi la bocca per la sorpresa.

Era sdraiato sul mio letto, con un gran sorriso sulle labbra, le mani dietro la testa, i piedi penzoloni: l’immagine del relax.

Mi sentivo vacillare, e mi lasciai cadere in ginocchio sul pavimento.

«Scusa». Si sforzava di non ridermi in faccia.

«Dammi solo un minuto per rimettere in moto il cuore».

Allora si tirò su a sedere, con lentezza, per non spaventarmi. Poi si avvicinò e mi sollevò con le sue lunghe braccia, afferrandomi appena sotto le spalle, come fossi una poppante. Mi poggiò sul letto accanto a lui.

«Vieni a sederti qui», suggerì, sfiorandomi la mano con la sua, gelida. «Come va il cuore?».

«Dimmelo tu. Di sicuro lo senti meglio di me».

La sua risata soffocata fece tremare il letto.

Restammo in silenzio, in attesa che le mie pulsazioni rallentassero. Iniziavo a rendermi conto che mio padre era in casa ed Edward in camera mia.

«Posso essere umana per un minuto?».

«Senz’altro». Con un gesto m’indicò che potevo procedere.

«Resta lì», dissi, sforzandomi di suonare severa.

«Sissignora». E finse di diventare una statua, seduta sul bordo del mio letto.

Mi alzai, raccolsi il pigiama dal pavimento e il beauty case dalla scrivania. Spensi la luce e sgattaiolai via, chiudendo la porta.

Dalle scale arrivava il vociare del televisore al piano di sotto. Chiusi la porta del bagno sbattendola forte, per evitare che Charlie salisse a ficcare il naso.

Volevo sbrigarmi. Mi lavai i denti con energia, scrupolo e velocità, per rimuovere ogni traccia delle lasagne. Ma non potevo mettere fretta all’acqua calda della doccia. Mi sciolse la schiena e mi rilassò. Il profumo familiare dello shampoo mi fece sentire come se fossi ancora la stessa persona che quel mattino era uscita di casa. Cercai di non pensare che Edward mi stava aspettando in camera mia, per non dover ricominciare da capo tutto il processo di rilassamento. Finita la doccia, non avevo più scuse per prendere tempo. Mi asciugai in fretta e furia. Infilai una maglietta bucherellata e i pantaloni grigi della tuta. Era troppo tardi per rimpiangere di non aver messo in valigia il pigiama di seta di Victoria’s Secret che mia madre mi aveva regalato un paio di compleanni prima, dimenticato in un qualche cassetto di Phoenix con le etichette ancora attaccate.

Mi strofinai i capelli con l’asciugamano e li pettinai alla bell’e meglio. Gettai l’asciugamano umido nella cesta, riposi spazzolino e dentifricio nel beauty. Poi di corsa scesi le scale, affinché Charlie notasse che ero in pigiama con i capelli bagnati.

«’Notte, papà».

«’Notte, Bella». Sembrò sorpreso di vedermi comparire così. Forse si sarebbe risparmiato il controllo notturno.

Salii gli scalini due alla volta, sforzandomi di non fare rumore, e schizzai in camera chiudendo la porta con cura.

Edward non si era mosso di un millimetro, era una statua di Adone appollaiato sulla mia coperta sbiadita. Di fronte al mio sorriso, le sue labbra sussultarono e la statua riprese vita.

Mi squadrò dalla testa ai piedi, per osservare i capelli umidi e la maglietta sbrindellata. Alzò un sopracciglio. «Carina».

Non mi convinceva.

«No, sul serio, stai bene».

«Grazie», sussurrai. Mi sistemai come prima, al suo fianco, sedendo sul letto a gambe incrociate.

«A che pro tutta questa preparazione e il resto?», chiese, vedendomi assorta sulle venature del pavimento.

«Charlie ha il sospetto che me ne possa sgattaiolare via di nascosto».

«Ah... E perché?». Come se non fosse capace di leggere chiaramente nella mente di Charlie tutto ciò che io potevo soltanto sospettare.

«A quanto pare, sono un po’ troppo su di giri».

Mi guardò bene in faccia, sollevandomi il mento.

«Ti trovo accaldata, in effetti».

Avvicinò lentamente il suo viso al mio, sfiorandomi con la guancia gelata. Restai assolutamente immobile.

«Mmm...», gemette con un respiro profondo.

Con lui che mi toccava, così vicino, era molto difficile formulare una domanda coerente. Mi ci volle un minuto buono per riuscire ad aprire bocca di nuovo.

«Mi sembra che ora starmi vicino sia... molto più facile, per te».

«Ti sembra?», mormorò, sfiorandomi l’incavo del collo con la punta del naso. Sentii la sua mano, più leggera delle ali di una farfalla, ravviare all’indietro i miei capelli bagnati per scoprire la pelle dietro l’orecchio, posarvi le labbra.

«Molto, molto più facile», dissi, senza che mi uscisse il fiato.