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Pensai al motivo di tale esortazione e rabbrividii.

«Esme e Carlisle?», chiesi rapidamente, cercando di procedere con la conversazione perché non badasse alle mie reazioni.

«Sono felici che io sia felice. Anzi, credo che Esme ti apprezzerebbe anche se avessi tre occhi e i piedi palmati. In tutti questi anni si è preoccupata per me, ha sempre temuto che alla mia essenza originale mancasse qualcosa, che fossi troppo giovane quando Carlisle mi ha cambiato... È felicissima. Ogni volta che ti sfioro, gongola di soddisfazione».

«Anche Alice sembra molto... entusiasta».

«Alice ha un modo tutto suo di vedere le cose», disse a labbra strette.

«E tu non hai intenzione di parlarmene, vero?».

Il silenzio con cui rispose era denso di sottintesi. Edward capì che sapevo che mi nascondeva qualcosa. E io intuii che non era disposto a rivelarmelo. Non in quel momento.

«E cosa ti stava dicendo Carlisle, prima?».

Alzò gli occhi di scatto. «Ah, te ne sei accorta?».

Mi strinsi nelle spalle. «Certo».

Mi osservò per qualche secondo, prima di rispondere: «Aveva una notizia per me... e non sapeva se avrei gradito condividerla».

«E?».

«Sono obbligato a condividerla, perché nei prossimi giorni - o settimane - sarò un po’... iperprotettivo nei tuoi confronti e non voglio che tu pensi a me come a un despota».

«Qual è il problema?».

«Nessun problema, per ora. Alice, però, ha visto che presto riceveremo ospiti. Sanno che siamo qui e sono curiosi».

«Ospiti?».

«Sì... be’, ovviamente non sono come noi... quanto ad abitudini di caccia, intendo. Probabilmente non entreranno a Forks, ma non sono intenzionato a perderti di vista finché non se ne saranno andati».

Rabbrividii.

«Finalmente una reazione normale! Iniziavo a temere che non fossi dotata di istinto di sopravvivenza».

Lasciai correre, distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare per il vasto salone.

Edward seguì il percorso dei miei occhi: «Non ti aspettavi questo, eh?». Sembrava compiaciuto.

«In effetti, no».

«Niente bare, niente teschi ammucchiati negli angoli; credo che non ci siano nemmeno ragnatele... chissà che delusione, per te», proseguì, sarcastico.

Evitai di stare al gioco: «È così luminosa... così ariosa».

«È l’unico posto in cui non siamo costretti a nasconderci», rispose in tutta serietà.

La canzone che stava ancora suonando, la mia canzone, veleggiò verso gli ultimi accordi, più malinconici. L’eco dell’ultima nota fu enfatizzata dal silenzio della casa.

«Grazie», sussurrai. Avevo gli occhi lucidi. Li asciugai, imbarazzata.

Avvicinò la punta di un dito alla mia palpebra, catturando una lacrima che mi era sfuggita. Osservò la goccia intrappolata sul polpastrello. Poi, con un gesto rapido, invisibile, la assaggiò.

Lo fissavo, perplessa, e lui mi restituì lo sguardo, immobile per un lunghissimo istante, prima di illuminarsi di un sorriso.

«Vuoi vedere il resto della casa?».

«Niente bare?». Il sarcasmo nella mia voce non mascherava del tutto la leggera, ma sincera, ansia che sentivo.

Rise, prendendomi per mano e allontanandosi dal pianoforte assieme a me.

«Niente bare, te lo prometto».

Salii le scale massicce assieme a lui, sfiorando con le dita il corrimano liscio come la seta. Il lungo corridoio del primo piano era contornato di pannelli di legno color miele, identici a quelli del pavimento.

«La stanza di Rosalie ed Emmett... lo studio di Carlisle... la stanza di Alice...», indicava ogni porta con un gesto.

Avrebbe proseguito, ma io mi arrestai in fondo al corridoio, fissando incredula la decorazione appesa al muro sopra la mia testa. Edward ridacchiò della mia espressione sbalordita.

«Puoi anche ridere», disse. «È ironico, in un certo senso».

Non ci riuscivo. Alzai automaticamente una mano, tentando di sfiorare con un dito la grossa croce di legno, la cui tinta scura contrastava con quella più morbida della parete. Non la toccai, benché fossi curiosa di sentire se quel legno invecchiato fosse liscio come appariva.

«Dev’essere antichissima».

Edward si strinse nelle spalle. «Anni Trenta del diciassettesimo secolo, più o meno».

Distolsi gli occhi dalla croce per guardare lui.

«Perché la conservate qui?».

«Nostalgia. Apparteneva al padre di Carlisle».

«Era un collezionista?».

«No. L’ha costruita lui. Stava sopra il pulpito della chiesa di cui era pastore».

Non sapevo se nei miei occhi si leggesse lo sbalordimento, ma a scanso di equivoci tornai a osservare la croce, antica e disadorna. Mi ci volle poco per fare i conti: aveva più di trecentosettant’anni. Il silenzio ci avvolse, mentre mi sforzavo di immaginare un tempo tanto lungo.

«Tutto bene?», sembrava preoccupato.

«Quanti anni ha Carlisle?», chiesi piano, ignorando la sua domanda, i miei occhi ancora fissi sulla croce.

«Ha appena festeggiato il suo trecentosessantaduesimo compleanno», rispose Edward. Mi voltai, con un milione di domande nello sguardo.

Parlò senza staccarmi gli occhi di dosso.

«Carlisle è quasi certo di essere nato a Londra, negli anni Quaranta del diciassettesimo secolo. All’epoca le date non erano registrate con cura, non per la gente comune. Fu poco prima dell’avvento di Cromwell».

Cercai di mantenere un’espressione composta, mentre ascoltavo. Il che era possibile solo se non mi sforzavo di credergli.

«Era l’unico figlio di un pastore anglicano. Sua madre morì di parto. Suo padre era un uomo intollerante. Quando i protestanti presero il potere, fu molto attivo nella persecuzione dei cattolici e dei seguaci di altre religioni. Credeva anche molto nell’esistenza delle incarnazioni del male. Guidava le cacce alle streghe, ai licantropi... e ai vampiri». La parola mi lasciò impietrita. Edward se ne accorse certamente, ma proseguì senza pause.

«Furono bruciate parecchie persone innocenti: di sicuro le vere creature di cui andavano a caccia non erano così facili da stanare.

Diventato anziano, il pastore cedette il ruolo di guida dei cacciatori al figlio devoto. Sulle prime, Carlisle fu una delusione: non era abbastanza pronto nel condannare, nel vedere demoni dove non ce n’erano. Ma era testardo, e più intelligente del padre. Scoprì un rifugio di veri vampiri, che abitavano le fogne della città e uscivano solo di notte per cacciare. Molti vivevano così, in un’epoca in cui i mostri non erano ritenuti soltanto mito e leggenda.

La folla raccolse le forche e le torce, ovviamente», la sua risata si fece breve e cupa, «e attese, nel punto in cui Carlisle aveva visto che i mostri uscivano. Finché uno di loro non emerse dal sottosuolo».

Parlava a voce molto bassa; per ascoltarlo dovevo tendere l’orecchio.

«Probabilmente era una creatura antica e sfiancata dalla fame. Carlisle lo sentì chiamare gli altri in latino, quando si accorse dell’odore della folla. Iniziò a correre per le strade, e Carlisle - che a ventitré anni era molto veloce - guidava l’inseguimento. La creatura avrebbe potuto agevolmente seminarli, ma era troppo affamata, perciò si voltò e li attaccò. Si avventò su Carlisle, ma dovette difendersi dal resto della folla. Uccise due uomini, scappò con un terzo e lasciò Carlisle a terra, sanguinante».

Fece una pausa. Sentivo che mi stava risparmiando una parte del racconto, per nascondermi qualcosa.

«Carlisle sapeva quale destino gli avrebbe riservato il padre. Avrebbe fatto bruciare i corpi: tutto ciò che il mostro aveva infettato sarebbe stato distrutto. Perciò agì d’istinto, per salvarsi la vita. Strisciò via dal vicolo mentre la folla inseguiva il mostro e la sua vittima. Si nascose in una cantina e restò sepolto per tre giorni sotto dei sacchi di patate andate a male. Fu un miracolo se riuscì a rimanere in silenzio, a non farsi scoprire.

A quel punto era finita, e lui si rese conto di ciò che era diventato».

Si arrestò di colpo, di fronte a chissà quale reazione che mi lesse sul volto.

«Come va?», chiese.

«Bene». Malgrado mi fossi morsa un labbro tradendo un’esitazione, la mia curiosità gli risultò più che evidente.