«Carlisle nuotò fino in Francia e frequentò le università europee. Di notte studiava musica, scienza, medicina: trovò così la sua vocazione, la sua penitenza, proprio nel salvare vite umane». Dalla sua espressione trapelava rispetto, quasi riverenza. «Non potrei descrivere la sua lotta interiore... gli ci vollero quasi due secoli per affinare l’autocontrollo. Ora è completamente immune all’odore del sangue umano e può svolgere il lavoro che ama senza tormento. L’ospedale è per lui una preziosa fonte di pace». Edward fissò il vuoto per lunghi istanti. D’un tratto si scosse, sembrò ritrovare il filo del discorso. Picchiettò con un dito contro il grande dipinto di fronte a noi.
«Studiava in Italia, quando scoprì gli altri. Erano molto più civili e colti di quella specie di spettri che vivevano nelle fogne di Londra».
Sfiorò un quartetto di figure piuttosto composte, sistemato sulla balconata più alta, che osservava calmo il viavai sottostante. Esaminai attenta i lineamenti degli uomini raffigurati e mi sfuggì un risolino di sorpresa quando riconobbi quello dai capelli biondo oro.
«Francesco Solimena fu molto ispirato dagli amici di Carlisle. Li raffigurava spesso come dèi». Ridacchiava. «Aro, Marcus, Caius», disse, indicando gli altri tre, due dai capelli neri, l’altro bianchi come la neve. «Protettori notturni delle arti».
«Che fine hanno fatto?», chiesi, puntando il dito a un centimetro dalle figure sulla tela.
«Sono ancora lì». Si strinse nelle spalle. «Come da chissà quanti millenni. Carlisle restò con loro per poco tempo, non più di qualche decennio. Ammirava molto la loro civiltà, i loro modi raffinati, ma insistevano nel voler curare la sua avversione alla “fonte naturale di nutrimento”, come la chiamavano. Cercarono di persuaderlo, come lui cercò di persuadere loro, senza risultato. A quel punto, decise di provare con il Nuovo Mondo. Sognava di incontrare qualcuno come lui. Come puoi immaginare, si sentiva molto solo.
Per molto tempo non trovò nessuno. Però, mano a mano che i mostri perdevano verosimiglianza e diventavano solo personaggi delle favole, scoprì di poter interagire con gli esseri umani come fosse uno di loro. Iniziò a operare come medico. Ma il genere di compagnia che cercava era irraggiungibile: non poteva permettersi troppa intimità.
Quando si diffuse l’epidemia di spagnola, Carlisle faceva i turni di notte in un ospedale di Chicago. Da parecchi anni si trastullava con un’idea che non era ancora riuscito a sperimentare, e in quel momento decise di agire: dal momento che non riusciva a trovare un compagno, ne avrebbe creato uno. Non era del tutto sicuro di come fosse avvenuta la sua trasformazione, qualche dubbio gli era rimasto. Ed era riluttante all’idea di rubare la vita a qualcun altro, come era stata rubata a lui. A quel punto scoprì me. Ero senza speranza: mi avevano lasciato nella corsia dei moribondi. Decise di provare...».
La sua voce, quasi un sussurro, si spense. Si perse nel vuoto, fuori dalla finestra sul lato occidentale, ma non guardava nulla. Chissà quali immagini affollavano la sua memoria, chissà se erano ricordi suoi o di Carlisle. Io attendevo in silenzio.
Quando tornò a parlarmi, sulle sue labbra splendeva un sorriso angelico.
«Così, il cerchio si chiude».
«Hai sempre vissuto con lui?».
«Quasi». Posò una mano, dolcemente, sul mio fianco e mi guidò fuori dallo studio, stringendomi a sé. Diedi un ultimo sguardo alla parete con i quadri, chiedendomi se sarei mai riuscita a sentire le altre storie.
Edward non aggiunse altro, mentre percorrevamo il corridoio, perciò fui io a insistere: «Quasi?».
Fece un sospiro, come se non fosse contento di rispondere: «Be’, ho passato anch’io il mio periodo di ribellione adolescenziale, più o meno dieci anni dopo la... nascita... o creazione, chiamala come vuoi. La sua vita di astinenza non mi convinceva, ce l’avevo con lui perché non faceva che soffocare il mio appetito. Perciò, per qualche tempo, me ne andai per i fatti miei».
«Davvero?». Ero affascinata, più che impaurita come forse avrei dovuto essere.
E ciò non sfuggì a Edward. Mi accorsi a malapena che stavamo per salire l’altra rampa di scale, ma non badavo granché a dove ci trovassimo.
«Non ne sei disgustata?».
«No».
«Perché no?».
«Perché... sembra una scelta ragionevole».
Liberò una risata, molto più fragorosa della precedente. Eravamo in cima alle scale, di fronte a un altro corridoio.
«Dal giorno della mia rinascita», mormorò, «ho avuto il vantaggio di poter leggere nel pensiero di chiunque mi si trovasse vicino, umano e non umano. Perciò mi occorsero dieci anni per sfidare Carlisle: vedevo la sua sincerità immacolata e capivo perfettamente cosa lo spingesse a vivere così.
Mi ci volle solo qualche anno per tornare da Carlisle e riconoscere che aveva ragione. Pensavo che sarei rimasto immune dalla... depressione... che la coscienza porta con sé. Dal momento che leggevo nel pensiero delle mie prede, potevo risparmiare gli innocenti e assalire soltanto i malvagi. Se seguivo un assassino dentro un vicolo buio dove aveva intrappolato una ragazza... se salvavo lei, allora certo non avevo motivo di sentirmi così tremendo».
Rabbrividii, rapppresentandomi fin troppo chiaramente la scena: il vicolo buio, la ragazza impaurita, l’uomo scuro che la insegue. Ed Edward, Edward a caccia, terribile e glorioso come un giovane dio, inarrestabile. La ragazza gli sarebbe stata grata, o ne sarebbe rimasta ancor più terrorizzata?
«Ma con il passare del tempo, iniziai a vedere la mostruosità nei miei occhi. Non riuscivo a sfuggire al peso di tutte quelle vite umane strappate, che lo meritassero o no. Così tornai da Carlisle ed Esme. Mi accolsero come il figliol prodigo. Non meritavo così tanto».
Ci eravamo fermati di fronte all’ultima porta del corridoio.
«La mia stanza», mi informò, aprendo la porta e invitandomi a entrare.
La camera era rivolta a sud, con una grande vetrata al posto della parete, come al piano terra. L’intero retro dell’edificio doveva essere un’unica vetrata. Le anse del fiume Sol Duc erano ben visibili, come la foresta vergine alla base dei Monti Olimpici. Le vette erano molto più vicine di quanto pensassi.
Il lato ovest della stanza era completamente occupato da scaffali su scaffali di CD. Era più fornito di un negozio. Nell’angolo c’era un impianto stereo sofisticatissimo, il genere di apparecchio che io avrei potuto rompere semplicemente sfiorandolo. Non c’era il letto, ma soltanto un divano di pelle nero, molto invitante. Il pavimento era coperto da uno spesso tappeto dorato, e dalle pareti penzolavano drappi pesanti, leggermente più scuri.
«Migliora l’acustica?», chiesi.
Sorrise e annuì.
Afferrò un telecomando e accese lo stereo. Il volume era basso, ma sembrava che la band stesse suonando il suo pezzo soft jazz proprio lì nella stanza, insieme a noi. Mi avvicinai a osservare la sua sbalorditiva collezione di dischi.
«In che ordine li hai sistemati?», chiesi, persa in mezzo a titoli disparati tra cui non riuscivo a orientarmi.
Edward pareva assente.
«Uhm... sono divisi per anno, e poi per preferenze personali», disse, distratto.
Mi voltai, e vidi che mi guardava con un’espressione particolare negli occhi.
«Cosa c’è?».
«Immaginavo che mi sarei sentito... sollevato. Farti sapere tutto, non avere più bisogno di segreti. Ma non pensavo che sarebbe andata ancora meglio. Mi piace. Mi fa sentire... felice». Si strinse nelle spalle e si illuminò.
«Sono contenta», dissi, ricambiando il sorriso. Avevo temuto che potesse pentirsi di tutte le sue rivelazioni. Era bello sapere che mi sbagliavo.