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Ma a un tratto, mentre studiava la mia espressione, il suo sorriso svanì, e corrugò la fronte.

«Sei sempre in attesa degli strilli e della fuga a gambe levate, vero?», domandai.

Accennò un lieve sorriso, annuendo.

«Scusa se ti smonto così, ma non sei terribile come pensi. Anzi, a dirla tutta non ti trovo affatto spaventoso». Mentii con disinvoltura.

Restò di sasso, e alzò le sopracciglia per mostrarmi un’ostentata incredulità. Poi sfoderò un sorriso ampio, quasi un ghigno.

«Questo non dovevi dirlo».

Iniziò a ringhiare, emettendo un suono cupo dal profondo della gola; arricciò il labbro scoprendo i denti perfetti. Scattò all’improvviso in un’altra posizione, mezzo acquattato, coi muscoli tesi, come un leone pronto a balzare sulla preda.

Feci un passo indietro, gli occhi sbarrati.

«Non provarci».

Non lo vidi neppure mentre mi saltava addosso, fu troppo veloce. In un istante mi ritrovai a mezz’aria, e poi atterrammo sul divano, facendolo sbattere contro il muro. Le sue braccia d’acciaio mi chiudevano in una gabbia protettiva, a malapena riuscivo a muovermi. Mi mancava ancora il fiato, mentre cercavo di tirarmi su.

Ma lui non me lo permise. Mi costrinse ad appallottolarmi contro il suo petto, stringendomi come una catena d’acciaio. Lo guardai, allarmata, ma sembrava perfettamente padrone della situazione e sfoggiava un sorriso rilassato, lo sguardo acceso soltanto dal buonumore.

«Dicevi?», ringhiò, per scherzo.

«Che sei un mostro molto, molto terrificante». Cercai di essere sarcastica, ma avevo perso la voce.

«Così va molto meglio».

«Uhm». Tentai di divincolarmi. «Adesso posso alzarmi?».

Rise, ma non mi lasciò.

«Possiamo entrare?», una voce morbida risuonò dal corridoio.

Provai a liberarmi, ma Edward si limitò a farmi accomodare in braccio a lui. Sulla porta vidi Alice e alle sue spalle Jasper. Ero rossa di vergogna, ma Edward sembrava a proprio agio.

«Avanti», disse, ancora ridendo.

Alice non sembrava affatto disturbata dal nostro abbraccio; avanzò - quasi a passo di danza, tanto era aggraziata - fino al centro della stanza, e si acciambellò sinuosamente sul pavimento. Jasper, invece, si fermò sulla soglia, leggermente sorpreso. Guardava Edward negli occhi, e chissà se stava saggiando l’atmosfera con la sua sensibilità particolare.

«Abbiamo sentito strani rumori... se stavi per mangiare Bella per pranzo, sappi che ne vogliamo un po’ anche noi», dichiarò Alice.

Per un istante mi irrigidii, poi mi accorsi che Edward sogghignava, forse per il commento di sua sorella, o per la mia reazione.

«Scusate, ma non credo di potervene offrire», rispose, avvicinandomi ancora di più al suo petto.

«A dir la verità», disse Jasper, sorridendo suo malgrado mentre avanzava verso di noi, «Alice dice che stasera ci sarà un temporale con i fiocchi ed Emmett vuole organizzare una partita. Sei dei nostri?».

La proposta era normalissima, ma il contesto mi lasciava perplessa. Benché di certo Alice fosse più affidabile delle previsioni del tempo.

Lo sguardo di Edward si accese, poi però esitò.

«Ovviamente porta anche Bella», cinguettò Alice. Mi parve di cogliere un’occhiata fulminea di Jasper verso di lei.

«Vuoi venire?», chiese Edward entusiasta, su di giri.

«Certo». Non potevo deludere un’espressione come quella. «Ehm, dove?».

«Per giocare dobbiamo aspettare i tuoni... il perché lo capirai».

«Servirà l’ombrello?».

Risero tutti e tre a gran voce.

«Tu che dici?», chiese Jasper ad Alice.

«No». Era molto convinta. «Il temporale colpirà la città. Nello spiazzo staremo all’asciutto».

«Bene». Andava da sé: l’entusiasmo nella voce di Jasper si stava diffondendo. Mi scoprii impaziente di andare, anziché inchiodata dalla paura.

«Chiediamo a Carlisle se viene anche lui». Alice si diresse verso la porta con un portamento che avrebbe spezzato il cuore di qualsiasi ballerina.

«Come se tu già non lo sapessi», la provocò Jasper, e in un istante erano sgattaiolati fuori. Jasper, senza dare nell’occhio, si richiuse la porta alle spalle.

«A cosa giochiamo?», chiesi.

«Tu resti a guardare. Noi giochiamo a baseball».

Alzai gli occhi, stupita: «I vampiri giocano a baseball?».

«È il passatempo americano per eccellenza», rispose solenne, e ironico.

17

La partita

Aveva appena cominciato a scendere una pioggerella invisibile, quando Edward imboccò la strada di casa mia. Fino a quel momento, avevo creduto di poter trascorrere qualche ora nel mondo reale assieme a lui.

Ma poi vidi l’auto nera, una Ford stagionata, parcheggiata sul vialetto, e lo sentii borbottare qualcosa di incomprensibile in tono cupo e irritato.

A ripararsi dalla pioggia sotto la bassa veranda c’erano Jacob Black e, di fronte a lui, suo padre, sulla sedia a rotelle. Billy era impassibile, immobile, e non riusciva a staccare gli occhi da Edward che stava parcheggiando sul ciglio della strada. Jacob guardava in basso, mortificato.

Edward era furioso: «Stavolta hanno passato il segno».

«È venuto a mettere in guardia Charlie?», chiesi, più in ansia che arrabbiata.

Edward rispose soltanto con un cenno di assenso verso di me e uno sguardo torvo verso Billy, nascosto dalla nuvola di pioggia.

Grazie al cielo, Charlie non era in casa.

«Lascia fare a me», suggerii. Lo sguardo nero di Edward stava per gettarmi nel panico.

Con mia grande sorpresa, fu d’accordo. «Probabilmente è la scelta migliore. Però fai attenzione. Il bambino non sa nulla».

Rimasi perplessa di fronte alla parola “bambino”. «Jacob non è tanto più piccolo di me», gli feci presente.

Mi guardò, e la sua rabbia svanì all’istante. «Sì, lo so», mi assicurò con un sogghigno.

Prima di scendere, lo guardai sospirando.

«Falli entrare, così potrò andarmene. Tornerò al tramonto».

«Vuoi che ti lasci il pick-up?», gli proposi, ma intanto pensavo a come giustificare con Charlie l’assenza del mezzo.

«Ricorda che io a piedi sono molto più veloce del tuo pick-up».

«Non sei obbligato ad andartene», dissi mestamente.

Sorrise della mia espressione malinconica: «Invece sì. Dopo che ti sarai liberata di loro», e lanciò un’occhiata truce verso i Black, «ti toccherà preparare Charlie a conoscere il tuo nuovo ragazzo». Sfoderò un sorriso a trentadue denti.

«Tante grazie, che bella notizia».

Ed ecco di nuovo il sorriso sghembo che amavo tanto. «Tornerò presto, lo prometto». Lanciò un’altra occhiata alla veranda e si avvicinò per baciarmi, appena sotto il mento. Il mio cuore rimbalzò frenetico, e anch’io schizzai con gli occhi alla veranda. Billy non era più impassibile, si stringeva forte alla sedia a rotelle.

«Presto», ripetei con forza. Poi scesi dal pick-up, sotto la pioggia.

Sentivo il suo sguardo addosso, mentre correvo verso la veranda sotto la pioggerella insistente.

«Ehi, Billy. Ciao, Jacob». Racimolai un po’ di entusiasmo per salutarli. «Charlie è fuori fino a stasera... Spero che non abbiate aspettato troppo».

«Non tanto», disse Billy, a mezza voce, inchiodandomi con i suoi occhi neri. «Volevo solo portare questo». Indicò il sacchetto di carta che teneva in grembo.

«Grazie», risposi, anche se non avevo idea di cosa fosse. «Perché non entrate un minuto ad asciugarvi?».

Mi sforzai di ignorare il suo sguardo indagatore, aprii la porta e li invitai in casa.

«Faccio io», dissi voltandomi per aprire le ante della porta. Mi concessi un ultimo sguardo a Edward. Aspettava, perfettamente immobile, con aria solenne.

«Devi metterlo in frigo», suggerì Billy mentre mi passava il sacchetto. «È un po’ di frittura casereccia e tutto l’accompagnamento, l’ha preparato Harry Clearwater. È la preferita di Charlie». Si strinse nelle spalle. «Al freddo resta asciutta».