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«Tu cos’hai fatto oggi?», chiese lui, svegliandomi dal torpore.

«Be’, oggi pomeriggio ho gironzolato per casa...». Soltanto nell’ultimissima parte del pomeriggio, per la precisione. Mi sforzavo di essere allegra, ma mi sentivo vuota dentro. «E stamattina sono stata dai Cullen».

Charlie mollò la forchetta, che cadde sul tavolo.

«A casa del dottor Cullen?», chiese, sbalordito.

Finsi di non notare la sua reazione: «Sì».

«E cosa ci sei andata a fare?». La forchetta era ancora sul tavolo.

«Be’, avevo una specie di appuntamento con Edward Cullen, stasera, e lui ha insistito per presentarmi ai suoi genitori... Papà?».

Rischiava l’aneurisma.

«Papà, stai bene?».

«Esci con Edward Cullen?», chiese, minaccioso.

Oh-oh. «Pensavo che i Cullen ti piacessero».

«È troppo vecchio per te».

«Siamo entrambi al terzo anno». Non se ne rendeva conto, ma in realtà aveva molta più ragione di quanto pensasse.

«Aspetta... Qual è Edwin?».

«Edward è il più giovane, quello con i capelli castano ramati». Quello bello, bello come un dio...

«Oh, be’, così va... meglio, direi. Quello grosso non mi piace granché. Non ho dubbi che sia un bravo ragazzo e tutto il resto, ma sembra troppo... maturo per te. Questo Edwin è il tuo ragazzo?».

«Si chiama Edward, papà».

«Allora?».

«Più o meno sì».

«Ieri sera hai detto che in città non c’erano ragazzi interessanti». Ma a quel punto riprese la forchetta, segno che il peggio era passato.

«Be’, Edward non vive in città».

A bocca piena, mi lanciò un’occhiata sprezzante.

«E in ogni caso», ripresi, «siamo ancora alle prime fasi. Non mettermi in imbarazzo con discorsi da fidanzati, okay?».

«Quando arriva?».

«Tra qualche minuto dovrebbe essere qui».

«Dove ti porta?».

Stavo per perdere la pazienza. «Spero che abbandonerai presto il tuo metodo da Tribunale dell’Inquisizione. Andiamo a giocare a baseball con la sua famiglia».

Mi rispose sarcastico: «Tu giochi a baseball?».

«Be’, probabilmente resterò a guardare».

«Deve piacerti davvero, eh?», commentò, malizioso.

Mi limitai a sospirare, alzando gli occhi al cielo.

Il rombo di un motore si stava avvicinando. Saltai in piedi e iniziai a lavare i piatti.

«Lascia stare, li faccio domattina. Tu mi coccoli troppo».

Il campanello suonò, e Charlie si affrettò ad aprire. Ero mezzo passo dietro di lui.

Senza che ce ne fossimo accorti, fuori aveva iniziato a diluviare. Edward apparve sotto l’aureola della luce della veranda, sembrava un modello nella pubblicità di un impermeabile.

«Entra, Edward».

Per fortuna Charlie aveva azzeccato il nome.

«Grazie, ispettore», rispose Edward, rispettoso.

«Chiamami tranquillamente Charlie. Dammi il giaccone».

«Grazie, signore».

«Siediti pure, Edward».

Feci una smorfia.

Edward si accomodò con grazia sull’unica sedia, costringendomi a sedermi sul sofà accanto all’ispettore Swan. Gli lanciai un’occhiataccia. Lui rispose con un occhiolino, alle spalle di Charlie.

«E allora, ho sentito che porti mia figlia a vedere una partita di baseball». Solo nello Stato di Washington la pioggia a catinelle non impedisce affatto gli sport all’aperto. «Sì, signore, quello è il programma». Non sembrava sorpreso che avessi detto la verità a mio padre. Probabilmente aveva ascoltato la conversazione.

«Be’, in bocca al lupo, allora».

Charlie rise, ed Edward si unì a lui.

«D’accordo». Mi alzai. «Smettetela di prendermi in giro. Andiamo». Recuperai la giacca a vento in anticamera. Loro mi seguirono.

«Non fare tardi, Bell».

«Non si preoccupi, Charlie. La porto a casa presto», dichiarò Edward.

«Tratta bene mia figlia, d’accordo?».

Sbuffai, esasperata, ma mi ignorarono entrambi.

«Le prometto che con me starà al sicuro, signore».

Era impossibile che Charlie dubitasse di quelle parole: erano intrise di sincerità.

Io sgattaiolai fuori insofferente. Risero entrambi, poi Edward mi seguì.

Uscita in veranda, restai di stucco. Accanto al mio pick-up c’era una jeep mostruosa. Le ruote mi arrivavano alla vita. I fari anteriori e posteriori erano coperti da protezioni di metallo e sul paraurti spiccavano quattro riflettori supplementari. Il tetto era rosso metallizzato.

Charlie commentò con un fischio.

«Allacciate le cinture», disse, ridendo sotto i baffi.

Edward mi seguì e aprì la portiera. Calcolai l’altezza del sedile e mi preparai al salto. Lui sbuffò e mi sollevò con una mano sola. Speravo che Charlie non avesse visto.

Mentre lui si dirigeva, a passo umano, lento, dalla parte del guidatore, cercai di allacciare la cintura. Ma c’erano troppe fibbie.

«E questa cos’è?».

«Un’imbracatura da fuoristrada».

«Mamma mia».

Cercai di trovare il giusto alloggiamento per tutte le fibbie, ma ero lenta e impacciata. Edward, spazientito, si sporse su di me per aiutarmi. Fortunatamente Charlie era invisibile, sotto la veranda e dietro la pioggia fitta. Questo significava che non poteva accorgersi di come le mani di Edward indugiassero sul mio collo e mi sfiorassero le spalle. Rinunciai ad aiutarlo e cercai di non andare in iperventilazione.

Edward girò la chiave e il motore prese vita. Ci lasciammo la casa alle spalle.

«Questa jeep è davvero... grossa, non c’è che dire».

«È di Emmett. Immaginavo che non ti andasse di fartela tutta di corsa».

«Dove tenete questo coso?».

«Abbiamo trasformato in garage uno degli edifici accanto alla casa».

«Non ti allacci la cintura?».

Mi guardò come se stessi scherzando.

Poi ci feci caso e mi riecheggiarono le sue parole.

«Tutta di corsa? Nel senso che dovremo anche camminare?». La mia voce salì di alcune ottave.

Rise sotto i baffi: «Tu non correrai».

«Io starò di nuovo male».

«Se chiudi gli occhi andrà tutto bene».

Strinsi i denti, per combattere il panico.

Si avvicinò a baciarmi la fronte, e poi fece una smorfia. Lo guardai perplessa.

«Il tuo odore con la pioggia è buonissimo».

«In senso buono o cattivo?».

Sospirò. «In entrambi i sensi, come sempre».

Non so come riuscisse a orientarsi, al buio e sotto quell’acquazzone, ma svoltò in una strada secondaria che era molto poco strada e molto più sentiero di montagna. Parlare era impossibile, perché rimbalzavo su e giù come un martello pneumatico. Edward invece si godeva il viaggio e sorrise per tutto il tragitto.

Infine giungemmo al termine della strada: tre pareti di alberi verdi circondavano la jeep. Il temporale era diventato una pioggerella, sempre più debole, e dietro le nubi il cielo si schiariva.

«Scusa, Bella, ma ora ci tocca procedere a piedi».

«Sai una cosa? Ti aspetto qui».

«Dov’è finito il tuo coraggio? Stamattina sei stata straordinaria».

«Non ho ancora dimenticato l’ultima volta». Possibile che fosse passato soltanto un giorno?

In un lampo, eccolo al mio fianco. Iniziò a slacciarmi l’imbracatura.

«Ci penso io, tu vai avanti», protestai.

«Mmm...». In un secondo aveva già terminato. «A quanto pare mi toccherà metter mano alla tua memoria».

Prima che potessi reagire, mi sollevò dal sedile e mi costrinse a scendere. Era rimasto solo un filo di nebbia: le previsioni di Alice si stavano avverando.

«Mettere mano alla mia memoria?», chiesi nervosamente.

«Qualcosa del genere». Mi guardava intensamente, con attenzione, ma nel profondo dei suoi occhi c’era dell’ironia. A quel punto ero costretta tra la portiera della jeep, alle mie spalle, ed Edward di fronte a me, che mi chiudeva ogni via d’uscita appoggiandosi al finestrino con entrambe le mani. Si fece ancora più vicino, il suo viso era a pochi centimetri dal mio. Sentivo il suo respiro addosso, e bastava semplicemente il suo odore a mettere in crisi la mia razionalità. «Dimmi di cos’hai paura», alitò.