«Be’, ecco, di sbattere contro un albero... e di morire. E poi, di avere la nausea».
Soffocò una risata. Poi piegò la testa e avvicinò delicatamente le labbra fredde all’incavo del mio collo.
«Adesso hai ancora paura?», sussurrò, sfiorandomi la pelle.
«Si». Faticavo a mantenere la concentrazione. «Di sbattere contro gli alberi e di avere la nausea».
Con la punta del naso disegnò una linea, dal collo al mento. Il suo respiro freddo mi faceva il solletico.
«E adesso?», sussurrò, con le labbra vicinissime alle mie.
Mi mancava il fiato. «Alberi... Nausea da movimento».
Si avvicinò a baciarmi sulle palpebre. «Bella, non dirmi che credi davvero che potrei sbattere contro un albero».
«Tu no, ma io sì». Non c’era un filo di convinzione nella mia voce. Edward pregustava una vittoria certa.
Mi baciò dolcemente la guancia, a un centimetro dalle labbra.
«Pensi che permetterei a un albero di farti del male?». La sua bocca sfiorò leggerissima la mia.
«No», dissi senza voce. Ero soltanto a metà della mia brillante arringa, ma già avevo dimenticato come proseguiva.
«Vedi», disse, senza allontanare le labbra di un millimetro. «Non c’è niente di cui avere paura, no?».
«No», sospirai, rassegnata.
Poi, con foga, prese la mia testa fra le mani e mi diede un vero bacio, muovendo le sue labbra con decisione sopra le mie.
Non avevo scuse per comportarmi così. A quel punto avrei dovuto saperla lunga. Eppure, non riuscii a trattenermi dal reagire esattamente come la prima volta. Anziché restare tranquilla e immobile, mi allacciai stretta alle sue spalle e mi ritrovai avvinghiata al suo petto roccioso. Con un gemito dischiusi le labbra.
Lui si allontanò di scatto, liberandosi senza difficoltà dalla mia presa.
«Accidenti, Bella!», sbottò ansimante. «Tu mi vuoi morto, altroché!».
Mi piegai in avanti, appoggiandomi alle ginocchia per non perdere l’equilibrio.
«Tu sei indistruttibile», sussurrai, senza fiato.
«Lo credevo anch’io, prima di conoscerti. Adesso andiamocene da qui, prima che io combini qualche grossa stupidaggine», ringhiò.
Mi prese in spalla con uno strattone, nonostante si stesse evidentemente sforzando di non essere troppo irruento Strinsi le gambe attorno ai suoi fianchi e le braccia attorno alle spalle, in una presa soffocante.
«Ricorda di non guardare», disse severo.
Allora intrufolai il viso tra il braccio e la sua scapola, serrando gli occhi.
Pareva che fossimo rimasti immobili. Sentivo Edward scivolare via dolcemente, come se passeggiasse su un marciapiede. Avevo la tentazione di sbirciare per controllare che stesse davvero volando in mezzo alla foresta, ma riuscii a resistere. Non valeva la pena rischiare quelle tremende vertigini. Mi accontentai di ascoltare il suo respiro regolare.
Capii che ci eravamo fermati soltanto quando sentii un suo buffetto sui capelli.
«Ci siamo, Bella».
Osai aprire gli occhi e, in effetti, eravamo arrivati. Allentai la presa con cautela e mi lasciai scivolare giù, atterrando di sedere.
«Ohi!», esclamai, rovinando gambe all’aria sulla terra umida.
Mi fissò incredulo, evidentemente incerto se restare arrabbiato o prendermi in giro. Ma di fronte alla mia espressione sbalordita si lasciò andare a una risata fragorosa.
Mi alzai senza badargli, togliendomi di dosso il fango e le felci. E lui rise ancora più forte. Seccata, iniziai a camminare a grandi passi verso la foresta.
Sentii il suo abbraccio attorno ai fianchi.
«Dove vai, Bella?».
«A vedere una partita di baseball. Non mi sembra che tu abbia più tanta voglia di giocare, ma sono certa che gli altri si divertiranno anche senza di te».
«Stai andando dalla parte sbagliata».
Mi voltai senza degnarlo di uno sguardo e scattai nella direzione opposta. Mi riacchiappò.
«Non arrabbiarti, è stato più forte di me. Avresti dovuto vederti in faccia». Si lasciò scappare una risatina.
«Ah, l’unico a cui è permesso di arrabbiarsi sei tu?».
«Non ero arrabbiato con te».
«“Bella, tu mi vuoi morto”?!», lo citai acida.
«Quello è un semplice dato di fatto».
Cercai nuovamente di scappare, ma mi teneva stretta.
«Eri arrabbiato».
«Sì».
«Ma se hai appena detto...».
«Non ero arrabbiato con te. Non capisci, Bella?». Si era improvvisamente rabbuiato, sul suo viso non c’era più traccia di divertimento. «Non capisci?».
«Che cosa?». Ero confusa dalle sue parole e dal suo cambiamento di umore.
«Non sono mai arrabbiato con te. Come potrei esserlo? Sei sempre così coraggiosa, fiduciosa... calorosa».
«E allora, perché?», sussurrai, ricordando gli accessi di umor nero che talvolta lo allontanavano da me e che avevo sempre interpretato come frustrazione, giustificata da quanto fossi debole, lenta, imprevedibile nelle mie reazioni umane...
Mi accarezzò le guance con delicatezza. «Ciò che mi fa infuriare», disse gentile, «è l’impossibilità di proteggerti dai rischi. La mia stessa esistenza è un rischio, per te. A volte mi odio dal profondo. Dovrei essere più forte, capace di...». Gli chiusi la bocca con le dita.
«No».
Prese la mano con cui l’avevo zittito e se la posò sulla guancia.
«Ti amo», disse. «È una giustificazione banale per quanto faccio, ma sincera».
Era la prima volta che lo sentivo dire che mi amava con così tante parole. Forse lui non se ne era reso conto, ma io sì.
«Adesso, per favore, cerca di comportarti bene», aggiunse, e si avvicinò per baciarmi con delicatezza.
Restai immobile, come dovevo. Poi feci un sospiro.
«Hai promesso all’ispettore Swan che mi avresti portata a casa presto, ricordi? È meglio che ci muoviamo».
«Sissignora».
Sorrise malizioso e mi liberò dalla presa. Tenendomi per mano, mi guidò per qualche metro attraverso le felci alte e umide e il muschio spesso, poi attorno a un massiccio abete canadese, per sbucare infine al bordo di un enorme campo aperto, ai piedi dei Monti Olimpici. Era due volte più grande di uno stadio di baseball.
Gli altri erano già lì: Esme, Emmett e Rosalie, seduti su una roccia che spuntava dal terreno, a un centinaio di metri da noi. A quasi mezzo chilometro di distanza, Jasper e Alice erano impegnati a lanciare qualcosa avanti e indietro, anche se non vedevo nessuna palla. Carlisle sembrava intento a marcare le basi, ma era possibile che fossero così lontane?
Quando ci videro, i tre che erano seduti si alzarono. Esme si avvicinò a noi. Emmett la seguì dopo aver indugiato con lo sguardo verso Rosalie, che dandoci le spalle si era diretta al prato senza degnarci di un’occhiata. Il mio stomaco reagì con un sussulto.
«Veniva da te il rumore che abbiamo sentito, Edward?», chiese Esme.
«Sembrava un orso che tossiva», precisò Emmett.
Accennai un sorriso a Esme. «Era lui».
«Senza volerlo, Bella mi ha fatto ridere», spiegò Edward, per chiudere il discorso alla svelta.
Alice aveva lasciato la sua posizione e veniva di corsa, ovvero a passo di danza, verso di noi. Con una frenata fluida si arrestò ai nostri piedi. «È il momento», annunciò.
Non appena aprì bocca, un tuono cupo e profondo proveniente da ovest, dalla città, fece tremare la foresta alle nostre spalle.
«Inquietante, eh?», mi stuzzicò Emmett e, prendendosi fin troppa confidenza, mi fece l’occhiolino.
«Andiamo». Alice afferrò la mano di Emmett, e insieme sfrecciarono attraverso il campo sovradimensionato. Lei correva come una gazzella; lui era altrettanto aggraziato e veloce, ma somigliava a ben altro animale.
«Sei pronta per una bella partita?», chiese Edward, con uno sguardo raggiante e impaziente.
Cercai di rispondere con il dovuto entusiasmo: «Forza ragazzi!».
Lui rise sotto i baffi e, dopo avermi scompigliato i capelli, corse verso gli altri due. La sua corsa era più aggressiva, somigliava a un ghepardo, e li superò facilmente. Tanta grazia e potenza mi toglievano il fiato.