«Scendiamo anche noi?», chiese Esme, con la sua voce morbida e melodiosa, mentre io fissavo Edward rapita, a bocca aperta. Mi ricomposi alla svelta e annuii. Esme si manteneva di fianco a me, ma a distanza di qualche metro, forse temeva ancora di spaventarmi. Adattò il suo passo al mio, senza dare segni di impazienza.
«Non giochi con loro?», chiesi, timida.
«No, preferisco fare da arbitro: voglio che rispettino le regole».
«Perché, di solito barano?».
«Oh sì, e dovresti sentire che litigate! Anzi, meglio di no, penseresti che sono stati allevati da un branco di lupi!».
«Mi sembra di sentire mia madre», risi, sorpresa.
Anche lei rise. «Per me sono come figli veri. Non potrei mai vincere il mio istinto materno... Edward ti ha detto che ho perso un bambino?».
«No», mormorai basita, mentre tentavo di capire a quale esistenza si riferisse.
«Sì, il mio primo e unico figlio. Morì pochi giorni dopo il parto, povero piccolo». Fece un sospiro. «Mi si spezzò il cuore... Fu per questo motivo che mi lanciai dallo scoglio», aggiunse, come niente fosse.
«Edward mi ha detto che eri... caduta».
«Il solito gentiluomo», rise. «Edward è stato il primo dei miei nuovi figli. L’ho sempre considerato tale, benché per un verso sia più vecchio di me». Mi rivolse un sorriso caloroso. «Ecco perché sono così contenta che ti abbia trovata, cara». Tutto quell’affetto non stonava sulle sue labbra. «Ha vissuto in solitudine troppo a lungo; vederlo così isolato mi ha sempre fatto soffrire».
«Perciò non è un problema che io sia... così... sbagliata?», chiesi, esitante.
«No». Era pensierosa. «Tu sei ciò che vuole. In un modo o nell’altro, funzionerà», disse, ma la sua fronte tradiva che era tutt’altro che fiduciosa. Giunse il rombo di un altro tuono.
Esme mi fece segno di fermarmi: eravamo giunte a bordo campo. I giocatori erano divisi in due squadre. Edward era il più distante, nella metà sinistra del campo, Carlisle stava tra la prima e la seconda base e Alice teneva la palla, in piedi sopra quello che evidentemente era il monte di lancio.
Emmett faceva roteare una mazza di alluminio, sibilava nell’aria, quasi invisibile. Mi aspettavo che si avvicinasse alla casa base, ma poi mi resi conto, quando si mise in posizione, che già ci stava, più lontano dal lanciatore di quanto potessi credere. Jasper, catcher della squadra avversaria, era parecchi metri più dietro, alle sue spalle. Ovviamente, nessuno indossava guanti.
«D’accordo», disse Esme con voce squillante, e sapevo che persino Edward, lontano com’era, riusciva a sentirla. «Prima battuta».
Alice restava ferma, immobile, per non avvantaggiare il battitore. Sembrava pronta a un lancio diretto, anziché a un colpo effettato. Teneva la palla stretta in grembo, e poi, come un cobra, la sua mano destra scattò e la palla finì dritta tra le mani di Jasper.
«Era uno strike?», bisbigliai a Esme.
«Se il battitore non la colpisce, è strike».
Jasper restituì la palla ad Alice. Lei si concesse un mezzo sorriso e lanciò di nuovo.
Stavolta, la mazza riuscì chissà come a colpire la palla invisibile. Il fragore dell’impatto fu esplosivo, rintronante; echeggiò tra le montagne, e capii all’istante perché avessero scelto di giocare sotto il temporale.
La palla schizzò come una meteora sopra il campo e si infilò nella foresta.
«Fuori campo», mormorai.
«Aspetta», rispose Esme, in ascolto con una mano alzata. Emmett era un fulmine sulle basi, Carlisle la sua ombra. Mi accorsi che mancava Edward.
«Out!», strillò Esme. Sbalordita, vidi Edward uscire dal limite degli alberi, mostrandoci la palla e un gran sorriso che persino io potevo scorgere.
«Emmett è il battitore più forte», spiegò Esme, «ma Edward è il corridore più veloce».
L’inning proseguì, sotto il mio sguardo incredulo. Era impossibile seguire la velocità della palla, il ritmo a cui i giocatori correvano attorno al campo.
Scoprii un altro motivo per cui avevano aspettato il temporale quando Jasper, nel tentativo di evitare le prese infallibili di Edward, lanciò una palla bassa verso Carlisle. Lui corse verso la palla e inseguì Jasper verso la prima base. Si scontrarono, e il suono dell’impatto somigliava allo schianto di due grandi rocce. Balzai in piedi, preoccupatissima, ma nessuno dei due si era fatto un graffio.
«Salvo», disse Esme, calma.
Con la squadra di Emmett in vantaggio di un punto - Rosalie era riuscita a fare un giro completo delle basi sfruttando una delle lunghissime ribattute di Emmett -, venne il turno di battuta di Edward. Corse al mio fianco, lo sguardo sfavillante di entusiasmo.
«Che te ne pare?».
«Di sicuro non riuscirò più a sopportare la vecchia e noiosa Major League».
«Sembra quasi che tu ne fossi fanatica, prima», rispose ridendo.
«Sono un po’ delusa», dissi, provocandolo.
«Perché?».
«Be’, sarebbe carino se mi mostrassi almeno una cosa che non sei capace di fare meglio di chiunque altro al mondo».
Sfoderò il suo speciale sorriso sghembo, e mi tolse il fiato.
«Eccomi», disse, preparandosi a battere.
Giocò con intelligenza, tenendo la palla bassa, fuori dalla portata di Rosalie che giocava da esterna, e guadagnò fulmineo due basi prima che Emmett rimettesse la palla in gioco. Dopo di lui, Carlisle ne ribatté una tanto lontano - con un tuono che mi spezzò i timpani - da riuscire a chiudere il punto assieme a Edward. Alice, soddisfatta, batteva il cinque a entrambi.
Mano a mano che la partita procedeva, il punteggio continuava a cambiare, e ogni volta che una delle due squadre andava in vantaggio iniziavano gli sfottò, come in una qualsiasi partita tra amici, per strada. Di tanto in tanto Esme li richiamava all’ordine. Tornarono i tuoni, ma non ci bagnammo, come Alice aveva previsto.
Carlisle stava per battere, ed Edward si preparava a ricevere, quando Alice ebbe un sussulto. Come al solito io ammiravo Edward, e mi accorsi solo della sua testa che scattava verso di lei. I loro sguardi si incrociarono, e in un istante qualcosa passò tra loro e corse dall’una all’altro. Prima ancora che gli altri riuscissero a parlare con Alice, eccolo al mio fianco.
«Alice?», chiese Esme, nervosa.
«Non ho visto... non sono riuscita a distinguere», sussurrò la ragazza.
A quel punto, tutti si erano raccolti attorno a lei.
«Cos’è, Alice?», chiese Carlisle, con la voce calma dell’autorità.
«Si spostano molto più velocemente di quanto pensassi. Ho capito soltanto ora di avere sbagliato prospettiva», mormorò.
Jasper si avvicinò a lei, protettivo: «Cos’è cambiato?».
«Ci hanno sentiti giocare e hanno fatto una deviazione», disse lei mortificata, come se si sentisse responsabile di quella sorpresa indesiderata.
Sette paia di occhi mi fissarono all’istante.
«Tra quanto?», disse Carlisle, voltandosi verso Edward.
Sul suo viso apparve uno sguardo intenso e concentrato.
«Meno di cinque minuti. Stanno correndo... vogliono giocare». Si rabbuiò.
«Puoi farcela?», gli chiese Carlisle rivolgendomi un rapido sguardo.
«No, non portandola...», tagliò corto. «Inoltre, la cosa peggiore che ci possa capitare è che sentano la scia e inizino a cacciare».
«Quanti?», chiese Emmett ad Alice.
«Tre».
«Tre! Allora lascia che arrivino». I fasci di muscoli d’acciaio si flettevano sulle sue braccia massicce.
In pochi ma interminabili istanti, Carlisle decise il da farsi. Solo Emmett restava imperturbabile; gli altri osservavano ansiosi Carlisle.
«Continuiamo a giocare», decise infine. Era tranquillo, pacato. «Alice ha detto che sono soltanto curiosi».
Quello! che si dicevano era un torrente di parole che si rovesciò in fretta, in pochi secondi. Avevo ascoltato con cura e capito quasi tutto, ma non sentii ciò che Esme stava chiedendo a Edward con una vibrazione muta delle labbra. Notai solo che lui scosse il capo, e l’aria rassicurata sul viso di lei.