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«Ricevi tu, Esme», disse Edward. «Io mi fermo qui». E rimase impalato di fronte a me.

Gli altri tornarono al campo, scrutando la foresta con la loro vista straordinariamente acuta. Alice ed Esme restavano voltate verso di me.

«Sciogliti i capelli», disse Edward, lentamente e sottovoce.

Obbedii, sciolsi l’elastico e agitai la testa.

Feci l’osservazione più ovvia: «Gli altri stanno per arrivare».

«Sì, rimani immobile, stai zitta e non allontanarti da me, per favore». Nascondeva bene la tensione, ma riuscivo a sentirla. Mi coprì il viso con i capelli.

«Non servirà», disse Alice a mezza voce. «Il suo odore si sente fin dall’altro lato del campo».

«Lo so». La sua voce era velata di frustrazione.

Carlisle prese posizione, e il resto dei giocatori lo seguì senza entusiasmo.

«Cosa ti ha chiesto Esme?», sussurrai.

Rispose soltanto dopo qualche secondo. «Se sono assetati», bisbigliò controvoglia, a labbra strette.

I secondi passavano; la partita continuava, apatica. Mantenevano per prudenza le ribattute smorzate; Emmett, Rosalie e Jasper non si allontanavano dall’interno del campo. Di tanto in tanto, malgrado la paura che mi annebbiava il cervello, sentivo addosso gli occhi di Rosalie. Erano inespressivi, ma qualcosa nella tensione delle sue labbra mi diceva che era in collera.

Edward non prestava alcuna attenzione alla partita, scrutava la foresta con gli occhi e con la mente.

«Mi dispiace, Bella», mormorò. Era furioso. «È stato stupido, irresponsabile esporti a questo rischio. Mi dispiace tanto».

Il suo respiro si arrestò e con gli occhi fissò un punto alla sua destra. Fece mezzo passo, frapponendosi tra me e ciò che stava arrivando.

Carlisle, Emmett e gli altri si voltarono nella stessa direzione, attirati da rumori troppo deboli per le mie orecchie.

18

La caccia

Sbucarono dal confine della foresta, schierandosi a una dozzina di metri l’uno dall’altro. Il primo maschio entrò nello spiazzo, si fermò, e lasciò che il suo compagno, alto e con i capelli scuri, lo precedesse, come per mostrare chiaramente chi fosse il capobranco. La terza era una donna; da quella distanza riuscivo soltanto a distinguerne il colore dei capelli, una sfumatura strabiliante di rosso arancio.

Prima di avvicinarsi con cautela alla famiglia di Edward, i tre serrarono i ranghi, come si conviene a una pattuglia di predatori di fronte a un branco più numeroso di propri simili.

Più li mettevo a fuoco, più notavo quanto fossero diversi dai Cullen. La loro andatura era acquattata, felina. Sembravano degli escursionisti, vestiti di jeans e camicie sportive pesanti, resistenti alle intemperie. Gli indumenti, però, erano consumati, e i tre avanzavano a piedi nudi. I due uomini avevano i capelli cortissimi, mentre la chioma arancione e luminosa della donna era zeppa di foglie e detriti raccolti nel bosco.

I loro sguardi acuti valutarono con attenzione l’atteggiamento civilizzato di Carlisle, che gli si faceva incontro guardingo affiancato da Emmett e Jasper. Senza che ci fosse bisogno di parlare, anche gli altri assunsero una posa eretta e più disinvolta.

L’uomo che guidava il gruppo era certamente il più bello, la sua carnagione mostrava tirate olivastre sotto il tipico pallore, e i capelli erano di un nero brillante. Di corporatura media, era sì muscoloso, ma niente a che vedere con Emmett. Sfoderò un sorriso spontaneo, mostrando una schiera di denti bianchi e splendenti.

La donna aveva l’aria più selvatica, i suoi occhi non smettevano di oscillare tra i suoi due compagni e il gruppo che mi circondava; i capelli le si arruffavano nella brezza leggera, e la postura era chiaramente felina. Il secondo maschio ronzava silenzioso alle spalle degli altri, più magro, anonimo, sia nel colore castano dei capelli sia nei lineamenti regolari. Il suo sguardo, per quanto immobile, sembrava il più vigile.

Anche gli occhi erano differenti. Anziché neri o dorati, come mi aspettavo, erano di un intenso color vinaccia, inquietante e sinistro.

L’uomo con i capelli scuri si avvicinò a Carlisle sorridendo.

«Ci sembrava di aver sentito giocare», disse pacato, con un leggero accento francese. «Mi chiamo Laurent, questi sono Victoria e James». Indicò i vampiri accanto a lui.

«Io mi chiamo Carlisle. Questa è la mia famiglia: Emmett e Jasper, Rosalie, Esme e Alice, Edward e Bella». Ci indicò a gruppi, per non solleticare troppo l’attenzione del trio. Quando fece il mio nome ebbi un sussulto.

«C’è posto per qualche altro giocatore?», chiese educato Laurent.

Carlisle rispose in tono amichevole: «A dir la verità, stavamo proprio finendo. Ma la prossima volta potremmo averne bisogno. Avete in programma di trattenervi molto da queste parti?».

«Siamo diretti a nord, ma eravamo curiosi di visitare il vicinato. È da molto che non incontriamo nessuno».

«Questa regione di solito è disabitata, a parte noi e qualche visitatore occasionale, come voi».

La tensione si era lentamente sciolta in una conversazione spontanea. Probabilmente era Jasper a controllare la situazione, grazie al suo dono speciale.

«Qual è il vostro territorio di caccia?», chiese Laurent.

Carlisle ignorò le implicazioni della domanda. «La catena dei Monti Olimpici, qui vicino, o la costa, di tanto in tanto. Abbiamo una residenza fissa nei dintorni. E c’è un altro insediamento permanente come il nostro, nei pressi di Denali».

Laurent arretrò impercettibilmente, sui talloni.

«Permanente? E come fate?». Sembrava sinceramente curioso.

«Perché non venite a casa nostra e ne parliamo con calma? È una storia piuttosto lunga».

James e Victoria si scambiarono uno sguardo sorpreso alla parola “casa”. Laurent, invece, mantenne il controllo.

«Invito molto interessante, e ben accetto». Sorrise affabile. «Siamo partiti per la caccia dall’Ontario e non ci diamo una ripulita da un bel po’». I suoi occhi scrutavano con ammirazione l’aspetto raffinato di Carlisle.

«Vi prego di non offendervi, ma siamo costretti a chiedervi di astenervi dalla caccia, negli immediati dintorni. Capirete bene che è meglio che nessuno si accorga di noi», spiegò Carlisle.

«Certo», annuì Laurent. «Non invaderemo il vostro territorio, siatene certi. E comunque, abbiamo mangiato poco dopo aver lasciato Seattle». Rise. Un brivido mi corse lungo la schiena.

«Se volete seguirci, vi facciamo strada. Emmett e Alice, accompagnate Edward e Bella fino alla jeep».

Mentre Carlisle parlava, accaddero tre cose in contemporanea: la brezza leggera mi scompigliò i capelli, Edward si irrigidì, e il secondo maschio, James, si voltò di scatto a osservarmi, spalancando le narici.

Tutti restarono impietriti, e James si accucciò facendo un passo in avanti. Edward mostrò i denti, in posizione di difesa, e cacciò un ringhio bestiale. Niente a che vedere con quello giocoso che avevo sentito a casa sua: era la cosa più minacciosa che avessi mai udito, rabbrividii dalla radice dei capelli alla punta dei piedi.

«E questa cos’è?», esclamò Laurent, palesemente sorpreso. I duellanti non abbandonarono le loro pose aggressive. James fece una finta a cui Edward rispose immediatamente.

«È con noi». Il fermo rimprovero nella voce di Carlisle era diretto a James. Laurent sembrava meno sensibile al mio odore, ma anche lui, a quel punto, iniziava a capire.

«Vi siete portati uno spuntino?», chiese incredulo, avanzando involontariamente di un passo.

Il ringhio di Edward divenne ancora più duro e feroce, le sue labbra erano tese e scoprivano i denti brillanti. Laurent arretrò.

«Ho detto che è con noi», ribadì Carlisle, duro.

«Ma è umana», protestò Laurent. Sembrava semplicemente stupito, non aggressivo.

«Sì». Emmett si era messo al fianco di Carlisle, lo sguardo puntato su James. Questi si rilassò lentamente, ma senza perdermi di vista, con le narici sempre dilatate. Di fronte a me, Edward era teso come un leone pronto a spiccare un balzo.