Charlie bussava forte alla porta.
«Bella, stai bene? Che succede?». Sembrava impaurito.
«Me ne torno a casa», urlai, con voce rotta dal pianto nel momento perfetto.
«Ti ha trattata male?». Dalla paura, stava passando alla rabbia.
«No!», il mio strillo salì di parecchie ottave. Mi voltai verso l’armadio, ed ecco spuntare Edward, che in silenzio ne estraeva bracciate di vestiti a caso, per lanciarmele.
«Ti ha lasciata?», Charlie era perplesso.
«No!», urlai, con un po’ meno fiato, mentre affannata infilavo tutto nella sacca. Edward mi lanciò il contenuto di un altro cassetto. La borsa era già piena.
«Cos’è successo, Bella?», gridò Charlie da dietro la porta, senza smettere di bussare.
«Io ho lasciato lui», risposi, mentre mi accanivo sulla zip della sacca. Le mani capaci di Edward spinsero via le mie e la chiusero senza difficoltà. Me la sistemò per bene in spalla.
«Ti aspetto sul pick-up... Vai!», sussurrò, e mi spinse verso la porta. Svanì, uscendo dalla finestra.
Aprii la porta, scansai bruscamente Charlie e scesi le scale di slancio, attenta che il peso della borsa non mi sbilanciasse.
«Ma cos’è successo?», urlò lui. Mi era alle spalle. «Mi sembrava che ti piacesse».
In cucina mi raggiunse e mi trattenne per una spalla. Malgrado lo sbalordimento, la sua presa era forte.
Con uno strattone mi costrinse a voltarmi, e capii subito che non aveva nessuna intenzione di lasciarmi andare. Riuscii a escogitare soltanto una maniera per fuggire, e questa implicava ferirlo a tal punto che mi sarei odiata. Ma non avevo più tempo e dovevo mettere Charlie al sicuro.
Lo fissai con lo sguardo pieno di lacrime appena spuntate.
«Il problema è proprio che mi piace. Non ce la faccio più. Non posso mettere radici qui. Non voglio finire intrappolata in questa noiosa stupida cittadina, come la mamma! Non intendo ripetere il suo stesso errore idiota. Odio Forks... non voglio sprecarci più neanche un minuto del mio tempo!».
Mi lasciò la spalla come se avesse sentito una scossa elettrica. Voltai le spalle a Charlie, attonito e ferito, e puntai dritta verso la porta.
«Bells, non puoi andartene ora. È notte», sussurrò alle mie spalle.
Non mi voltai. «Se mi stanco dormirò nel pick-up».
«Aspetta almeno una settimana», mi implorò, ancora intontito dalla sorpresa. «Lascia almeno che Renée torni a casa».
«Cosa?». Quello fu un fulmine a ciel sereno.
Rincuorato dalla mia incertezza, continuò balbettando: «Ha chiamato mentre eri fuori. Le cose non stanno andando granché bene in Florida, e se Phil non trova un contratto entro la fine della settimana torneranno in Arizona. Il vice allenatore dei Sidewinders dice che forse hanno bisogno di un altro interbase».
Scossi il capo, cercando di riordinare le idee, peggio che confuse. Più aspettavo, più Charlie rischiava.
«Ho la chiave», mormorai, girando la maniglia. Era troppo vicino, con una mano allungata verso di me e l’espressione sconvolta. Non potevo perdere altro tempo a discutere. Ero obbligata ad affondare il coltello nella piaga.
«Lasciami andare, Charlie, per favore». Le ultime parole di mia madre, poco prima di attraversare quella stessa soglia, molti anni prima. Le pronunciai con tutta la rabbia che potevo e spalancai la porta. «Non ha funzionato, punto e basta. Odio Forks, la odio!».
Le mie parole crudeli fecero effetto: Charlie rimase sulla porta, impietrito e frastornato, mentre io fuggivo nella notte. Ero schifosamente terrorizzata dal giardino vuoto. Corsi a perdifiato verso il pick-up e notai un’ombra scura alle mie spalle. Lanciai la borsa sul pianale e spalancai la portiera. La chiave era già nel quadro.
«Ti chiamo domani!», gli urlai. Non so cosa avrei dato per potergli spiegare tutto in quel momento, ma sapevo che non ne sarei stata neppure capace. Accesi il motore e partii a mille.
Edward mi prese la mano.
«Accosta», disse, non appena la casa e Charlie sparirono dalla nostra visuale.
«So guidare», dissi con il viso coperto di lacrime.
A sorpresa, le sue lunghe mani mi strinsero i fianchi e con un piede mi tolse il controllo dell’acceleratore. Mi sollevò, spostandomi dal posto di guida, e in un secondo eccolo al volante. Il pick-up non deviò di un centimetro.
«Non saresti capace di ritrovare la casa», si giustificò.
All’improvviso un paio di fari si accesero alle nostre spalle. Mi sporsi dal finestrino, terrorizzata.
«Non preoccuparti, è Alice». Mi prese di nuovo la mano.
Davanti agli occhi avevo ancora l’immagine di Charlie sulla porta di casa. «E il segugio?».
«Ha assistito all’ultima parte della tua esibizione», disse Edward, torvo.
«E Charlie?», chiesi, angosciata.
«Il segugio ha seguito noi. È alle nostre spalle in questo momento».
Mi sentii ghiacciare.
«Possiamo seminarlo?».
«No». Eppure Edward accelerò. Il motore del pick-up lanciò un gemito di protesta.
All’improvviso, il piano non mi sembrava più tanto brillante.
Fissavo i fari di Alice dietro di noi, quando il pick-up scartò e fuori dal finestrino apparve un’ombra scura.
Il mio urlo agghiacciante durò una frazione di secondo, prima che Edward mi tappasse la bocca.
«È Emmett!».
Lasciò la presa e mi strinse con un braccio.
«Va tutto bene, Bella. Ti portiamo al sicuro».
Sfrecciavamo per la città addormentata, verso l’autostrada diretta a nord.
«Non immaginavo che fossi così annoiata dalla vita di provincia», attaccò Edward, e sapevo che stava cercando di distrarmi. «Mi sembrava che ti ci stessi abituando molto bene... - soprattutto negli ultimi tempi. Ma forse mi sono solo illuso di averti reso la vita un po’ più interessante».
«Non sono stata carina», confessai, abbassando gli occhi e ignorando il tentativo di cambiare discorso. «Ho ripetuto le stesse parole che disse mia madre quando se ne andò. È stato un colpo davvero basso».
«Non preoccuparti. Saprà perdonare». Accennò un sorriso, senza convincermi.
Lo fissai disperata, e nei miei occhi vide il panico.
«Bella, andrà tutto bene».
«Non quando sarai lontano», sussurrai.
«Ci rivedremo tra qualche giorno», rispose, stringendo la presa attorno ai miei fianchi. «Non dimenticare che l’idea è stata tua».
«Era l’idea migliore... per forza è stata mia».
Il sorriso che mi rivolse era vuoto e scomparve immediatamente.
«Perché è successo tutto questo?», chiesi, senza voce. «Perché io?».
Edward fissava la strada inespressivo e cupo. «È colpa mia. È stato stupido esporti in quella maniera». Ovvio, era arrabbiato con se stesso.
«Non è ciò che intendevo. Ero li, certo. Ma non ho infastidito gli altri due. Perché questo James avrebbe deciso di uccidere me? Con tutta la gente che c’è, perché proprio io?».
Prima di rispondere attese qualche istante.
«Stasera ho analizzato bene la sua mente», disse Edward a voce bassa. «Temo che in ogni caso non sarei riuscito a impedire tutto questo. In un certo senso, è anche colpa tua». Era beffardo. «Se il tuo odore non fosse così straordinariamente delizioso, forse non ne sarebbe stato toccato. Ma quando ti ho difesa... be’, ho peggiorato le cose, e di molto. Non è abituato a essere ostacolato, e non importa quanto insignificante sia la preda. Non si ritiene altro che un cacciatore. La sua esistenza è fatta soltanto di pedinamenti, è sempre alla ricerca di nuove sfide. All’improvviso, gliene abbiamo fornita una su un piatto d’argento: un folto clan di forti guerrieri che proteggono l’unico elemento vulnerabile del gruppo. Non puoi immaginare quanto lui sia euforico in questo momento. È il suo gioco preferito, e lo abbiamo appena invitato a una partita più eccitante del solito». Aveva la voce piena di disgusto.