«Andiamo». Carlisle si diresse verso la cucina.
Ma al mio fianco si materializzò Edward. Mi strinse nella sua presa d’acciaio, fino quasi a soffocarmi. Incurante della presenza dei suoi familiari, mi alzò da terra e avvicinò le labbra alle mie. Le sentii, fredde e dure, per il più breve degli istanti. Poi mi posò a terra accarezzandomi il viso, gli occhi ardenti fissi nei miei.
Quando si voltò, aveva il vuoto, la morte, nello sguardo.
E se ne andarono.
Gli altri furono tanto rispettosi da distogliere gli occhi da me, mentre il mio volto si rigava di lacrime mute.
Il silenzio si trascinò fino a quando il telefono vibrò nella mano di Esme. In un lampo lo portò all’orecchio.
«Ora», disse. Rosalie si affrettò verso l’uscita senza degnarmi di uno sguardo; Esme, invece, mi sfiorò una guancia.
«Stai attenta». Sentii il suo sussurro dietro di me, mentre le due donne già si dileguavano fuori di casa. Udii il motore del pick-up rombare e poi allontanarsi.
Jasper e Alice attendevano. Alice aveva già portato il telefono all’orecchio prima ancora che iniziasse a vibrare.
«Edward dice che la femmina è sulle tracce di Esme. Vado a prendere la macchina», riferì, e sparì nell’ombra, come Edward poco prima.
Io e Jasper ci guardammo. Restava dall’altra parte del corridoio, a distanza... e attento.
«Lo sai che ti sbagli, vero?», disse piano.
«Cosa?», chiesi senza fiato.
«Sento ciò che stai provando adesso, e ti dico che sono sicuro che ne vali la pena».
«No», bofonchiai. «Stanno rischiando per niente».
«Ti sbagli», ribadì, sorridendomi gentile.
In silenzio, Alice entrò e mi si avvicinò, con le braccia tese.
«Posso?».
«Sei la prima che chiede il permesso», accennai ironicamente, con un mezzo sorriso.
Mi prese tra le braccia snelle con la stessa facilità di Emmett, facendomi da scudo, e schizzammo fuori dalla porta lasciandoci alle spalle le luci di casa.
20
Inquietudine
Mi risvegliai confusa. Avevo la testa annebbiata, affollata di sogni e incubi. Impiegai più del dovuto per rendermi conto di dove fossi.
Una stanza così anonima poteva trovarsi soltanto in un albergo. Le abatjour fissate ai comodini erano un indizio inconfutabile, e così le tende dello stesso tessuto del copriletto e le stampe appese alle pareti.
Mi sforzai di ricordare come ci fossi arrivata, ma non mi veniva in mente nulla.
Poi ricordai l’auto nera, elegante, con i finestrini più scuri di quelli di una limousine. Il motore quasi non si sentiva, benché sfrecciassimo sulle autostrade buie a più del doppio del limite di velocità.
E ricordavo che Alice era seduta al mio fianco sul sedile posteriore. Chissà come, durante la lunga notte, avevo posato la testa contro il suo collo granitico. Non si era mostrata affatto stupita di quella vicinanza, e la sua pelle dura e fresca mi metteva stranamente a mio agio. Il colletto della sua camicia di cotone si era fatto umido e freddo, inzuppato dal fiume di lacrime che mi sgorgò dagli occhi finché non si furono prosciugati, restando rossi e pesti.
Ero rimasta a lungo insonne; le mie palpebre esauste rifiutavano di chiudersi, benché la notte fosse finita e dietro la cima di una montagna bassa, da qualche parte in California, si intravedesse l’alba. La luce grigia che colorava il cielo terso mi accecava. Ma i miei occhi non cedevano: se solo li chiudevo, riaffioravano immagini troppo vivide, intollerabili, come diapositive nascoste sotto le palpebre. L’espressione affranta di Charlie... il ringhio brutale di Edward a denti scoperti... lo sguardo sprezzante di Rosalie. E poi il modo in cui il segugio ci scrutava, acuto e all’erta, e la morte negli occhi di Edward dopo quell’ultimo bacio... Non riuscivo a sopportare di rivedere tutto questo. Perciò mi sforzai di combattere contro la stanchezza, e il sole si alzò.
Quando attraversammo uno stretto valico di montagna, e il nuovo giorno illuminò i tetti di mattoni della “valle del sole”, ero ancora sveglia. Se mi fosse rimasta qualche emozione, mi sarei sorpresa a scoprire che eravamo giunti in Arizona in un giorno solo, anziché in tre. Osservavo l’ampia distesa pianeggiante vuota di fronte a me. Phoenix: le palme, gli arbusti bassi e i cespugli odorosi di creosoto, le linee tracciate a caso dall’intersezione delle autostrade, le macchie verdi dei campi da golf appena rasati, le pozzanghere turchesi delle piscine; il tutto sommerso da uno smog sottile e abbracciato dalla breve catena di creste rocciose, troppo basse per poterle chiamare montagne.
Il sole gettava sull’asfalto le ombre oblique delle palme, definite, più aguzze di quanto ricordassi, più chiare di quanto avrebbero dovuto essere. Dietro quelle ombre non poteva nascondersi nulla. L’autostrada luminosa e aperta sembrava un luogo benevolo. Ma non provavo alcun sollievo, non era un vero ritorno a casa.
«Qual è la strada per l’aeroporto?», aveva chiesto Jasper, spaventandomi, malgrado la sua voce bassa e tranquilla. Fu il primo suono, a parte le fusa del motore, a spezzare il lungo silenzio di quella notte.
«Resta sulla I-101», avevo risposto meccanicamente, «e ci passeremo davanti».
Ricordavo come il mio cervello lavorasse lentamente, annebbiato dalla privazione di sonno.
«Prendiamo l’aereo?», avevo chiesto ad Alice.
«No, ma è meglio restare qui vicino, non si sa mai».
Ricordavo che avevamo imboccato la circonvallazione attorno all’aeroporto internazionale di Sky Harbor ma non che ne fossimo usciti. Probabilmente mi ero addormentata in quel momento.
Eppure, dopo aver ripescato i ricordi, mi restava un’immagine vaga di come ero scesa dall’auto - il sole stava per tramontare all’orizzonte - abbrancata alle spalle di Alice, che mi stringeva forte, trascinandomi in mezzo a ombre calde e asciutte.
Non ricordavo la stanza.
Guardai la radiosveglia sul comodino. Secondo le cifre rosse luminose erano le tre in punto, chissà se di notte o di pomeriggio. Dalle tende spesse non trapelava un filo di luce, la stanza era illuminata soltanto dalle lampadine.
Mi alzai, contratta, e barcollai fino alla finestra per guardare fuori.
Era buio. Perciò erano le tre di notte. La mia stanza dava su un tratto deserto di autostrada e sul nuovo parcheggio dell’aeroporto. Fu quasi rassicurante, riuscire a identificare tempo e spazio.
Indossavo ancora gli abiti di Esme e non mi andavano affatto bene. Mi guardai intorno e notai con piacere la mia sacca sopra il letto.
Mi avvicinai per tirarne fuori qualche vestito, ma qualcuno bussò piano alla porta, spaventandomi.
«Posso entrare?», chiese Alice.
Respirai a fondo. «Certo».
Entrò e mi rivolse un lungo sguardo indagatore. «Sembri strapazzata, potresti concederti qualche altra ora di sonno», disse.
Feci cenno di no.
Si avvicinò in silenzio alle tende e le chiuse con cura, prima di rivolgersi di nuovo a me: «Ci toccherà restare al chiuso».
«D’accordo». La voce mi si incrinò; era debole e rauca.
«Hai sete?».
«No, sto bene. E tu?».
«Niente di ingestibile». Sorrise. «Ti ho ordinato qualcosa da mangiare, è di là, nell’altra stanza. Edward ha detto di ricordarmi che voi vi nutrite molto più spesso di noi».
Subito mi sentii più vigile. «Ha chiamato?».
«No», rispose, notando la mia espressione delusa. «È stato prima di partire».
Mi prese per mano con delicatezza e mi guidò nel salotto della suite. Dalla TV arrivava un cupo brusio di voci. Jasper era immobile, seduto alla scrivania nell’angolo, e osservava il notiziario senza il minimo interesse.
Mi sedetti per terra, accanto al tavolino sul quale mi attendeva un vassoio pieno di cibo, e iniziai a mangiucchiare qualcosa, senza neppure badare a cosa fosse.
Alice si appollaiò sul bracciolo del divano e si mise a fissare a vuoto la TV, come Jasper.
Mangiavo piano, guardando lei e lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Jasper. Erano immobili, fin troppo. Non staccavano gli occhi dallo schermo, nemmeno quando c’era la pubblicità. Spinsi via il vassoio: improvvisamente avevo la nausea. Alice si voltò verso di me.