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«Cosa c’è che non va, Alice?», le chiesi.

«Niente». I suoi occhi erano grandi, sinceri... ma non mi fidai.

«Cosa facciamo adesso?».

«Aspettiamo la telefonata di Carlisle».

«Avrebbe già dovuto chiamare?». Quasi centro. Lo sguardo di Alice incrociò il mio e per un istante schizzò sul telefono, sopra la borsa di pelle.

«Cosa significa...», la voce mi tremava, faticavo a controllarla, «che non ha ancora chiamato?».

«Significa soltanto che non hanno niente da dirci». Ma la sua voce era troppo piatta, e l’atmosfera troppo tesa.

Immediatamente Jasper affiancò Alice, avvicinandosi a me più del solito.

«Bella», disse, con una voce dolce, fin troppo sospetta, «non c’è niente di cui preoccuparsi. Qui sei al sicuro, fidati».

«Questo lo so».

«E allora, perché hai paura?», chiese perplesso. Poteva percepire le mie emozioni, ma non riusciva a coglierne l’origine.

«Hai sentito anche tu cos’ha detto Laurent». La mia voce era un flebile sussurro, ma di certo riuscivano a sentirla. «Ha detto che James è letale. E se qualcosa non funziona, se si dividono? Se succede qualcosa a uno qualsiasi di loro, Carlisle, Emmett... Edward...». Restai senza fiato. «Se quella femmina selvaggia fa del male a Esme...». Nella mia voce risuonò una nota più stridula, isterica: «Come potrei vivere sapendo che è colpa mia? Nessuno di voi dovrebbe rischiare così tanto per me...».

«Bella, Bella, smettila». Jasper parlava troppo in fretta, quasi non lo capivo. «Ti preoccupi delle cose sbagliate. Credimi, se ti dico che nessuno di noi rischia niente. Sei già abbastanza sotto pressione: non caricarti del peso di preoccupazioni superflue. Ascoltami», mi rimproverò, perché avevo distolto lo sguardo, «la nostra famiglia è forte. L’unica paura che abbiamo è quella di perderti».

«Ma perché dovreste...».

A interrompermi fu Alice, che mi sfiorò la guancia con le dita fredde: «Edward è rimasto solo per quasi un secolo. Ora ha trovato te. Dopo tutti questi anni passati insieme a lui, certi cambiamenti non ci sfuggono, e lui è diverso, adesso. Pensi che avremmo il coraggio di guardarlo in faccia per i prossimi cent’anni, se ti perde?».

Il mio senso di colpa sbiadiva lentamente, mano a mano che sprofondavo in quegli occhi neri. Malgrado la calma mi stesse invadendo, però, sapevo di non potermi fidare delle mie sensazioni, se c’era Jasper.

Fu una giornata lunghissima.

Restammo nella stanza. Alice chiese alla reception di non preoccuparsi delle pulizie in camera. Le finestre erano sempre chiuse, la TV sempre accesa, benché nessuno la guardasse. I pasti arrivavano a intervalli regolari. Il telefonino argentato che spiccava sopra la borsa di Alice sembrava sempre più gigantesco.

I miei due baby-sitter sopportavano la tensione molto meglio di me. Più diventavo irrequieta e impaziente, più loro si facevano immobili, due statue i cui occhi mi seguivano con spostamenti impercettibili. Mi distraevo memorizzando i dettagli della stanza, le righe colorate dei cuscini: marrone chiaro, pesca, nocciola, oro opaco, e ancora marrone. Di tanto in tanto osservavo le stampe astratte appese alle pareti cercando di identificare delle figure, come facevo da piccola con le nuvole. Vidi una mano blu, una donna che si pettinava, un gatto che si stirava. Ma quando un cerchio rosso chiaro divenne un occhio spalancato, lasciai perdere.

Con l’avanzare del pomeriggio me ne tornai a letto, tanto per fare qualcosa. Speravo che da sola, al buio, avrei potuto dare sfogo alle paure terribili che incombevano ai margini della mia coscienza, frenate dall’attenta supervisione di Jasper.

Ma Alice, come se si fosse stancata anche lei del salotto, mi seguì. Forse aveva ricevuto da Edward istruzioni precise che io ignoravo. Mi sdraiai sul letto, lei si sedette al mio fianco, a gambe incrociate. Sulle prime semplicemente la ignorai, mi sentivo tutt’a un tratto abbastanza stanca da poter dormire. Dopo qualche minuto, però, il panico trattenuto dalla presenza di Jasper iniziò a riaffiorare. Rinunciai all’idea di addormentarmi in fretta e mi raggomitolai su me stessa.

«Alice?».

«Sì?».

Cercavo di mantenere un po’ di calma almeno nella voce. «Secondo te cosa stanno facendo?».

«Carlisle voleva attirare il segugio più a nord possibile, aspettare che si avvicinasse e poi tornare indietro a tendergli un’imboscata. Esme e Rosalie dovrebbero dirigersi a ovest, finché la femmina le segue. Se dovesse cambiare direzione, loro tornerebbero a Forks per tenere d’occhio tuo padre. Immagino che le cose stiano procedendo bene, se non possono telefonare. Significa che il segugio è molto vicinò e non vogliono che li ascolti».

«Neanche Esme?».

«Penso che dovrà prima tornare a Forks. Non si azzarderebbe a chiamare, se rischiasse di farsi sentire dalla femmina. Di sicuro tutti agiscono con la massima attenzione».

«Pensi davvero che siano al sicuro?».

«Bella, quante volte devo ripeterti che noi non siamo in pericolo?».

«Se così non fosse, mi diresti la verità?».

«Sì. Ti dirò sempre la verità». Sembrava sincera.

Per un attimo ci pensai su, e conclusi che lo era.

«E allora dimmi... come si diventa vampiri?».

La mia domanda la prese in contropiede. Si zittì. Mi rigirai nel letto per osservarla, la sua espressione era ambigua.

«Edward non vuole che te lo dica», rispose con fermezza, ma qualcosa mi diceva che non era d’accordo.

«Non è giusto. Credo di avere il diritto di saperlo».

«Lo so».

La guardai, impaziente.

Sospirò: «Si arrabbierà tantissimo».

«Non riguarda lui. Resterà tra me e te. Alice, te lo chiedo da amica». E in qualche modo, ormai eravamo davvero amiche. Probabilmente lei lo sapeva da sempre.

Mi fissò con i suoi occhi splendidi, grandi... inquieti.

«Ti spiegherò come funziona», disse infine, «ma io non me lo ricordo, non l’ho mai fatto né visto fare, perciò tieni conto che è solo teoria».

Aspettavo che parlasse.

«In quanto predatori, disponiamo di un arsenale vastissimo, molto più ricco del necessario. La forza, la velocità, i sensi affinati, per non parlare di quelli come me, Edward o Jasper, che sfruttano sensi supplementari. E poi, come fiori di piante carnivore, le nostre prede ci trovano fisicamente attraenti».

Immobile, ricordavo con quanta precisione Edward mi avesse dimostrato quello stesso concetto, nella radura.

Lei si illuminò di un sorriso ampio e inquietante. «E c’è un’altra arma che definirei superflua. Siamo anche velenosi». I denti mandarono un bagliore. «È un veleno che non uccide: mette soltanto fuori combattimento la vittima. Funziona lentamente, si diffonde attraverso il sangue in modo che la preda, sopraffatta da un dolore tanto intenso, non possa sfuggire. Come ho detto, è un’arma quasi del tutto superflua. Se siamo così vicini, la preda non fa comunque in tempo a scappare. Ci sono le eccezioni, certo. Carlisle, per esempio...».

«Perciò... se si lascia che il veleno si diffonda...».

«La trasformazione dura qualche giorno, a seconda di quanto veleno circola nel sangue e di quanto ne entra nel cuore. Il cuore pompa sangue e veleno che, entrando in circolo, guarisce e trasmuta il corpo. Alla fine il cuore si ferma, e la metamorfosi è completa. Ma in ogni singolo istante del mutamento, la vittima non desidera altro che morire».

Avevo i brividi.

«Ecco, non è una cosa piacevole».

«Edward mi ha detto che per voi è un’operazione molto delicata. Non capisco».

«In un certo senso, somigliamo anche agli squali. Se sentiamo il sapore, o l’odore, del sangue, diventa molto difficile mettere a tacere l’istinto famelico. Talvolta è impossibile. Perciò mordere qualcuno, assaggiarne il sangue, scatena l’impulso. È difficile per entrambi: la sete di sangue da una parte, il dolore insopportabile dall’altra».