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«Secondo te, perché non ricordi nulla?».

«Non lo so. Per gli altri, il dolore della trasformazione è il ricordo più acuto della loro vita da esseri umani. Io non ricordo nemmeno di esserlo stata». Si era intristita.

Restammo in silenzio, chiuse ciascuna nei propri pensieri.

I secondi passavano, ed ero talmente assorta da essermi dimenticata della presenza di Alice.

Poi, all’improvviso, scese dal letto con un balzo leggero. Alzai la testa di scatto, sorpresa.

«È cambiato qualcosa». Sembrava impaziente e non parlava con me.

Raggiunse la porta nello stesso istante in cui vi apparve Jasper. Era ovvio che avesse ascoltato la nostra conversazione e l’esclamazione improvvisa di Alice. Le posò le mani sulle spalle e la fece sedere sul bordo del letto.

«Cosa vedi?», chiese, concentrato, fissandola negli occhi. Lei aveva lo sguardo perso, metteva a fuoco qualcosa di molto, molto lontano. Mi sedetti accanto a lei, chinandomi per ascoltarne la voce svelta e flebile.

«Vedo una stanza. È lunga, ci sono specchi dappertutto. Il pavimento è di legno. Lui è nella stanza, in attesa. C’è dell’oro... una linea dorata sugli specchi».

«Dov’è la stanza?».

«Non lo so. Manca qualcosa... Una decisione che non è stata ancora presa».

«Quando?».

«Presto. Arriverà nella stanza degli specchi oggi, o forse domani. Dipende. Sta aspettando qualcosa. Ora è al buio».

Jasper sapeva come interrogarla, calmo e metodico: «Cosa fa?».

«Guarda la TV... no, è un videoregistratore, al buio, in un altro posto».

«Riesci a vedere dove?».

«No, c’è troppo buio».

«E nella stanza degli specchi cos’altro c’è?».

«Solo gli specchi e l’oro. È una linea che corre per tutta la stanza. Ci sono un tavolo nero, con sopra un grosso impianto stereo, e un televisore. Qui lui tocca il videoregistratore, ma non lo guarda come nella stanza buia. Questa è la stanza in cui aspetta». Fissò il vuoto, poi mise a fuoco il volto di Jasper.

«Nient’altro?».

Scosse il capo. I due si guardavano, immobili.

«Cosa significa?», chiesi.

Sulle prime, nessuno riuscì a rispondermi, poi parlò Jasper.

«Significa che i piani del segugio sono cambiati. Ha preso una decisione che lo porterà alla stanza degli specchi e alla stanza buia».

«Ma non possiamo sapere dove sono queste stanze?».

«No».

«Però sappiamo che non riusciranno a spingerlo sulle montagne a nord dello Stato di Washington. Riuscirà a sfuggirgli». La voce di Alice era cupa.

«E il caso di chiamarli?», chiesi. Si scambiarono uno sguardo preoccupato, indecisi.

Poi il telefono squillò.

Prima ancora che potessi alzare gli occhi, Alice era dall’altra parte della stanza.

Schiacciò un tasto e avvicinò il cellulare all’orecchio, ma non fu lei a parlare per prima.

«Carlisle», disse in un fiato. Non sembrava sorpresa né tranquillizzata, come invece ero io.

«Sì», disse, lanciandomi un’occhiata. Per qualche lunghissimo istante rimase in ascolto. «Mi è apparso poco fa». Descrisse di nuovo la sua visione. «Qualunque motivo l’abbia spinto a prendere quell’aereo... lo porterà a quelle stanze». Fece una pausa. «Sì», disse al telefono, poi si rivolse a me: «Bella?».

Mi porse il cellulare. Corsi a prenderlo.

«Pronto?».

«Bella».

«Oh, Edward! Ero preoccupatissima!».

«Bella», sospirò, frustrato, «ti ho detto di preoccuparti solo di te stessa». Sentire la sua voce era qualcosa di incredibilmente bello. La nuvola di disperazione svanì pian piano e se ne andò.

«Dove sei?».

«Appena fuori Vancouver. Bella, mi dispiace: l’abbiamo perso. Si muove con prudenza, riesce sempre a starci lontano quel tanto che basta perché mi sia impossibile sentire ciò che pensa. Ma adesso è sparito... sembra che abbia preso un aereo. Probabilmente tornerà a Forks per ricominciare la caccia da capo». Alle mie spalle, Alice aggiornava Jasper, con parole velocissime che si confondevano in un brusio.

«Lo so. Alice l’ha visto altrove».

«Tu però non devi preoccuparti. Non troverà niente che lo porti a te. Devi soltanto restare lì e aspettare che lo ritroviamo».

«D’accordo. Esme è da Charlie?».

«Sì. La femmina è tornata in città. È passata da casa tua, ma Charlie era al lavoro. Non gli si è avvicinata, perciò non preoccuparti. È al sicuro, guardato a vista da Esme e Rosalie».

«E lei cosa fa?».

«Probabilmente sta cercando la scia giusta. Stanotte ha battuto la città intera. Rosalie l’ha seguita in aeroporto, lungo le strade della periferia, a scuola... Sta scavando, Bella, ma non troverà niente».

«E tu sei certo che Charlie sia al sicuro?».

«Sì, Esme non lo perde di vista. E presto la raggiungeremo anche noi. Se il segugio si avvicina a Forks, lo prenderemo».

«Mi manchi», sussurrai.

«Lo so, Bella. Credimi, lo so. È come se ti fossi portata via metà di me stesso».

«E allora vieni a riprendertela».

«Presto, il più presto possibile. Prima ti salverò».

«Ti amo».

«Ci credi se ti dico che, malgrado tutto quello che ti sto facendo subire, ti amo anch’io?».

«Sì, certo che sì».

«Verrò a prenderti presto».

«Ti aspetto».

Non appena riattaccò, la nuvola di depressione tornò a riaddensarsi sulla mia testa.

Mi voltai per restituire il telefono ad Alice e la trovai seduta al tavolo, intenta a disegnare su un foglio di carta intestata dell’albergo. Sbirciai da dietro le sue spalle.

Stava disegnando una stanza: lunga, rettangolare, con una sezione quadrata più stretta in fondo. Le assi del parquet correvano parallele al lato più lungo. Sulle pareti, una serie di linee dritte marcava i contorni degli specchi. E poi, a un’altezza che poteva arrivare ai fianchi di una persona, la linea. La linea che secondo Alice era dorata.

«È una scuola di danza», dissi, riconoscendo all’istante le forme familiari.

Mi guardarono, sorpresi.

«Hai già visto questa stanza?». Jasper sembrava calmo, ma nella sua voce vibrò una nota che non riuscii a identificare. Alice stava a capo chino sulla sua opera, e la mano volava sul foglio a tratteggiare i contorni di un’uscita di sicurezza in fondo alla sala, poi lo stereo e il televisore sopra il tavolino, nell’angolo a destra dell’entrata.

«Sembra il posto in cui andavo a prendere lezioni di danza a otto o nove anni. Aveva la stessa forma». Sfiorai la pagina all’altezza della sezione quadrata e più stretta, in fondo alla stanza. «Qui c’era il bagno... per entrare si passava dall’altra sala. Ma lo stereo era qui», indicai l’angolo sinistro, «era più vecchio, e non c’era il televisore. In sala d’attesa c’era una finestra: da lì si poteva vedere la stanza, dalla stessa prospettiva che hai disegnato tu».

Alice e Jasper mi fissavano, increduli.

«Sei sicura che sia la stessa stanza?», chiese Jasper, senza perdere la calma.

«No, niente affatto: immagino che la maggior parte delle scuole di danza siano così, con gli specchi e la sbarra». Seguii con il dito la linea che incrociava gli specchi. «È soltanto la forma a sembrarmi familiare». Indicai la porta, che si trovava esattamente dove ricordavo.

«Avresti qualche motivo per andarci adesso?», chiese Alice, interrompendomi mentre fantasticavo sui miei ricordi.

«No, non ci entro da quasi dieci anni. Ero una ballerina tremenda... nei saggi di fine anno mi mettevano sempre in ultima fila».

«Perciò è impossibile che questa stanza possa portare a te?», chiese Alice, assorta.

«Probabilmente ha anche cambiato proprietario. Di sicuro è un’altra stanza, altrove».

«E la scuola di ballo che frequentavi tu, dov’è?», chiese Jasper, senza tradire troppa curiosità.

«Era a due passi da casa di mia madre. Ci andavo a piedi, dopo la scuola...», dissi, senza terminare la frase. Lo sguardo che i due si scambiarono non mi sfuggì.

«Qui a Phoenix?», chiese Jasper, il tono ancora calmo.

«Sì», dissi in un sussurro, «tra la Cactus e la Cinquantottesima».