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Restammo in silenzio, con gli occhi fissi sul disegno.

«Alice, quel telefono è sicuro?».

«Sì. È un numero del distretto di Washington».

«Allora posso usarlo per telefonare a mamma».

«Pensavo fosse in Florida».

«Sì, però tornerà presto, e non posso permettere che entri in casa e...». Mi tremava la voce. Stavo pensando a ciò che aveva detto Edward della femmina dai capelli rossi: che era stata a casa di Charlie e a scuola, dove erano custoditi i miei dati.

«Come farai a raggiungerla?».

«Non hanno un numero fisso, a parte quello di casa: lei controlla la segreteria regolarmente».

«Jasper?», chiese Alice.

Lui ci pensò sopra. «Non credo che corriamo rischi. Ovviamente, bada a non dire dove ti trovi».

Afferrai il telefono con impazienza e composi il numero che conoscevo così bene. Al quarto squillo, la voce di mia madre chiedeva di lasciare un messaggio.

«Mamma, sono io. Ascolta. Ho bisogno di un grosso favore. Appena senti il messaggio, chiamami a questo numero». Alice scattò al mio fianco e scrisse il numero in fondo al disegno. Lo lessi a voce alta con cura, due volte. «Ti prego, non andare da nessuna parte finché non mi avrai richiamato. Non preoccuparti, sto bene, ma devo parlare con te quanto prima, a qualsiasi ora ascolti la registrazione, d’accordo? Ti voglio bene, mamma. Ciao». Chiusi gli occhi e pregai con tutte le mie forze che nessun imprevisto la costringesse a tornare a casa prima di ascoltare la segreteria.

Mi lasciai cadere sul divano e presi a mangiucchiare quel che era rimasto di un vassoio di frutta, pronta ad affrontare una lunga serata. Pensai anche di chiamare Charlie, ma non ero sicura che fosse già a casa. Mi concentrai sui telegiornali, in cerca di servizi sulla Florida, sugli allenamenti precampionato, ma anche su scioperi, uragani o attacchi terroristici, su qualsiasi cosa che avrebbe potuto costringerli a tornare in anticipo.

Evidentemente, chi è immortale impara a essere paziente. Né Jasper né Alice sentivano il bisogno di fare alcunché. Per un po’, Alice tratteggiò la stanza buia come l’aveva vista, per quel che le permetteva la luce fioca del televisore. Quando finì, si sedette a osservare il muro spoglio, con i suoi occhi senza tempo. Neanche Jasper sembrava avere necessità di mettersi a passeggiare avanti e indietro, o di sbirciare dalla finestra, o di correre urlando fuori dalla porta, come avrei desiderato fare io.

Probabilmente mi addormentai sul divano, in attesa di uno squillo del telefono. Mi svegliai per qualche istante al tocco leggero delle mani gelate di Alice che mi rimetteva a letto, ma risprofondai nel sonno ancora prima di posare la testa sul cuscino.

21

Telefonata

Stavo lentamente iniziando a confondere il giorno con la notte, perché, ancora una volta, quando riaprii gli occhi era troppo presto. Sotto le coperte, ascoltavo le voci basse di Alice e Jasper nell’altra stanza. Era strano che riuscissi a sentirle. Rotolai fino a posare i piedi a terra e mi trascinai nel salotto.

L’orologio sul televisore diceva che erano passate da poco le due del mattino. Alice e Jasper stavano seduti sul divano, lei disegnava, lui osservava i suoi schizzi. Quando entrai non si accorsero di me, erano troppo concentrati.

Sgattaiolai a fianco di Jasper per sbirciare.

«Ha visto altro?», chiesi, a bassa voce.

«Sì. Qualcosa l’ha fatto tornare nella stanza del videoregistratore, che adesso è illuminata».

Alice disegnava una stanza quadrata, con travi scure sul soffitto. Le pareti erano rivestite di pannelli di legno scuro, fuori moda. Sul pavimento, un tappeto scuro con decorazioni geometriche. Verso sud si apriva un’ampia finestra e a ovest si vedeva l’accesso a un salotto. Un lato dell’accesso era fatto di pietra: era un camino di pietra marrone che dava su entrambe le stanze. Il punto di fuga della prospettiva, il televisore e il videoregistratore, ammassati su un tavolo di legno troppo piccolo, erano nell’angolo più lontano della stanza. Un vecchio divano ad angolo stava di fronte al televisore e in mezzo si trovava un tavolino basso.

«Lì sopra c’è il telefono», mormorai indicando il tavolino.

Due paia di occhi immortali mi fissarono.

«È casa di mia madre».

Alice balzò immediatamente dal divano con in mano il telefono. Io restai con gli occhi sbarrati sulla prospettiva perfetta del salotto di casa mia. Jasper, contrariamente alle sue abitudini, mi si avvicinò. Mi sfiorò piano la spalla, e il contatto aumentò la sua influenza benefica. Il panico divenne sfocato e nebuloso.

Le labbra di Alice vibravano, snocciolando parole velocissime, in un ronzio basso impossibile da decifrare. Non riuscivo a concentrarmi.

«Bella», disse Alice. Io seguitai à guardarla, confusa.

«Bella, Edward sta venendo a prenderti. Lui, Emmett e Carlisle ti porteranno via, per tenerti nascosta».

«Edward sta arrivando?». Quelle parole furono il salvagente che mi teneva a galla nel diluvio.

«Sì, con il primo volo da Seattle. Abbiamo appuntamento all’aeroporto, dopodiché te ne andrai via con lui»,

«Ma, mia madre... sta cercando mia madre, Alice!». Malgrado la presenza di Jasper, l’isteria trabordò nella mia voce.

«Jasper e io resteremo qui a proteggerla».

«Non posso cavarmela, Alice. Non potete restare a guardia di tutti i miei cari per sempre. Capite cosa sta facendo? Non segue soltanto le mie tracce. Appena ne avrà l’occasione, farà del male a qualcuno a cui voglio bene... Alice, non posso...».

«Lo prenderemo, Bella».

«E se accade qualcosa a uno di voi, Alice? Pensate che ne sarei contenta? Pensate che possa colpirmi soltanto facendo del male alla mia famiglia umana?».

Alice lanciò uno sguardo d’intesa a Jasper. Una nebbia di letargia profonda e pesante mi avvolse e chiusi gli occhi contro la mia volontà. Mi resi conto di ciò che stava accadendo e cercai di restare lucida malgrado la nebbia. Mi costrinsi ad aprire gli occhi e mi alzai, allontanandomi dal contatto con la mano di Jasper.

«Non voglio dormire!».

Sbattendo la porta rientrai in camera, per essere libera di crollare in privato. Alice non mi seguì. Per tre ore e mezzo restai rannicchiata nel letto a dondolarmi e a fissare la parete. La mia mente girava in tondo, cercando inutilmente una via di uscita da quell’incubo. Non c’era scampo, non c’erano soluzioni. Nel futuro vedevo la luce sbiadita di una sola conclusione possibile. La sola incertezza riguardava il numero di persone che nel frattempo ci sarebbero andate di mezzo.

L’unico sollievo, l’unica speranza che mi era rimasta, era la consapevolezza che presto avrei rivisto Edward. Forse il suo viso mi avrebbe ispirato la soluzione che in quel momento mi sfuggiva.

Quando il telefono squillò, tornai nel salone, vergognandomi un po’ del mio comportamento. Speravo di non averli offesi e che capissero quanto gli fossi grata dei sacrifici che facevano per il mio bene.

Alice parlava, rapida come sempre, ma ciò che attirò la mia attenzione fu che, per la prima volta, Jasper non c’era. L’orologio segnava le cinque e mezzo del mattino.

«Stanno per salire sull’aereo», disse Alice. «Atterreranno alle nove e quarantacinque». Ancora qualche ora da sopportare, prima dell’arrivo di Edward.

«Dov’è Jasper?».

«È andato a pagare il conto».

«Non restate qui, voi?».

«No, ci trasferiamo in un posto più vicino a casa di tua madre».

A quelle parole, mi si strinse lo stomaco.

Ma fui distratta da un altro squillo del cellulare. Alice sembrava sorpresa, io mi feci immediatamente avanti, fiduciosa.

«Pronto?... No, è qui accanto». Alice mi passò il telefono, dicendomi sottovoce che era mia madre.

«Pronto?».

«Bella? Bella?». Era la sua voce, mi chiamava con un tono familiare che da piccola avevo sentito migliaia di volte, quando mi avvicinavo troppo al bordo di un marciapiede o mi perdeva di vista in un posto affollato. Era la voce del panico.