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Pensavo di avere perso la capacità di sorprendermi, torturata com’ero dai miei pensieri, ma mi sorpresi eccome, quando vidi Alice piegata sulla scrivania, ai cui bordi si teneva aggrappata.

«Alice?».

Non reagì, continuò soltanto a ciondolare il capo lentamente, con gli occhi annebbiati, vuoti... Pensai subito a mia madre. Era già troppo tardi?

Corsi al suo fianco per prenderle la mano.

«Alice!», saettò la voce di Jasper, ed eccolo lì accanto, a coprire le mani di lei con le sue, sciogliendole dalla presa sul tavolo. Dall’altra parte della stanza, la porta si chiudeva con uno scatto cupo.

«Cosa succede?», chiese lui.

Lei si voltò e nascose il viso nel suo petto. «Bella», disse.

«Sono qui accanto», risposi.

Si voltò di nuovo, fissandomi negli occhi con uno sguardo stranamente vacuo. Mi resi conto all’istante che non voleva parlare con me: aveva risposto alla domanda di Jasper.

«Cos’hai visto?», chiesi, ma la mia, piatta e disinteressata, non suonava come una domanda.

Jasper mi fulminò con uno sguardo. Io cercai di fingere distacco, e attesi. Gli occhi di lui saltavano dal viso di Alice al mio e sentivano il caos... perché avevo intuito cosa avesse visto Alice.

Mi sentii avvolgere da un’atmosfera tranquilla. L’accolsi di buon grado e la sfruttai per disciplinare le mie emozioni.

Anche Alice si riprese.

«Niente, niente», rispose infine, incredibilmente calma e convincente. «La stessa stanza di prima».

Poi si rivolse a me, composta e tranquilla: «Volevi fare colazione?».

«No, mangio qualcosa in aeroporto». Anch’io ero calmissima. Andai a fare una doccia. Come se possedessi le facoltà ultrasensoriali di Jasper, avvertivo il desiderio pressante - e ben nascosto - di Alice di restare sola con lui. Così che potesse raccontargli che stavano sbagliando qualcosa, che avrebbero fallito...

Mi preparai con scrupolo, concentrandomi su ogni singolo gesto. Tenni i capelli sciolti, disordinati, per coprirmi il viso. La sensazione di pace creata da Jasper mi aveva invasa e mi aiutava a mantenere la lucidità, a pensare al piano. Frugai nella borsa in cerca della calza con i soldi. Me la svuotai in tasca.

Ero impaziente di arrivare all’aeroporto, e felice che alle sette ce ne saremmo andati da quell’albergo. Stavolta sul sedile posteriore dell’auto non avevo compagnia. Alice era appoggiata alla portiera, con il viso rivolto verso Jasper, ma da dietro gli occhiali da sole non mi perdeva di vista.

«Alice...», dissi, con atteggiamento indifferente.

«Sì?», rispose, cauta.

«Come funzionano? Le visioni, intendo». Guardavo fuori dal finestrino e parlavo con voce annoiata. «Edward ha detto che non sono definitive... che le cose cambiano, è vero?». Pronunciare quel nome fu più difficile di quanto pensassi. Probabilmente ciò mise Jasper in allarme, perché un’altra ondata di serenità invase l’abitacolo.

«Sì, le cose cambiano...». Speriamo, pensai. «Alcune visioni sono più sicure di altre... quelle che riguardano il tempo, per esempio. Con le persone è più difficile. Vedo la strada che seguono nel momento in cui la imboccano. Se per caso cambiano idea e prendono una decisione nuova, per minuscola che sia, tutto il futuro si trasforma».

Annuii, pensierosa: «E tu non eri riuscita a vedere James a Phoenix perché non aveva ancora deciso di venirci».

«Sì», mi confermò. Era di nuovo guardinga.

E non aveva visto me nella stanza degli specchi con James, finché non avevo deciso di incontrarlo. Cercai di non pensare a cos’altro avesse potuto vedere. Non volevo che il mio panico insospettisse ulteriormente Jasper. La visione di Alice li aveva resi ancora più vigili. Fuggire sarebbe stato impossibile.

Giungemmo all’aeroporto. La fortuna era con me, o forse mi voleva dare solo un piccolo aiuto. L’aereo di Edward era atteso al terminal 4, il più grande. Vi atterrava la maggior parte dei voli, perciò non c’era di che stupirsi. Ma era esattamente quello di cui avevo bisogno: la zona più caotica e affollata dell’aeroporto. E c’era una porta, al terzo piano, che poteva essere la mia unica via di scampo.

Parcheggiammo al quarto piano dell’enorme garage. Feci strada: per una volta ero io quella che si orientava meglio. Scendemmo con l’ascensore al terzo piano, quello dei passeggeri in arrivo. Alice e Jasper persero un sacco di tempo a osservare il tabellone delle partenze. Li sentivo discutere i pro e i contro di New York, Atlanta, Chicago. Città che non avevo mai visto. Che non avrei visto mai.

Aspettavo l’occasione giusta con impazienza, incapace di fermare i piedi irrequieti. Restammo seduti sulla lunga fila di sedie accanto ai metal detector. Jasper e Alice mi controllavano fingendo di guardare la gente che passava. Mi bastava muovermi di un centimetro perché mi guardassero con la coda dell’occhio. Non avevo speranza. Dovevo mettermi a correre?

Avrebbero osato costringermi a fermarmi con la forza, in un luogo pubblico? O si sarebbero limitati a seguirmi?

Presi la busta da lettere dalla tasca e la posai sopra la borsetta di pelle nera di Alice. Lei mi guardò.

«La lettera», dissi. Annuì e la infilò in una tasca esterna. Edward l’avrebbe trovata subito.

I minuti passavano, l’aereo stava per atterrare. Era incredibile come ogni singola cellula del mio corpo sentisse la vicinanza di Edward e desiderasse vederlo. Ciò rendeva tutto molto difficile. Mi ritrovai a pensare a una scusa per rimandare, anche di poco, la fuga. A un modo per vederlo, prima. Ma sapevo che dopo l’arrivo di Edward non avrei avuto più alcuna possibilità di fuggir via.

Più di una volta Alice si offrì di accompagnarmi a fare colazione. Ancora no. Prendevo tempo.

Tenevo gli occhi fissi sul tabellone degli arrivi, osservando la successione puntuale dei voli. L’aereo da Seattle si avvicinava sempre di più alla cima dell’elenco.

Poi, quando mi restava soltanto mezz’ora per scappare, i numeri cambiarono. Il volo di Edward era in anticipo di dieci minuti. Non avevo più tempo.

«Penso che mangerò qualcosa», dissi svelta.

Alice si alzò. «Vengo con te».

«È un problema se mi faccio accompagnare da Jasper? Mi sento un po’...». Non terminai la frase. Il mio sguardo era abbastanza terrorizzato da suggerire il resto.

Jasper si avvicinò. Alice sembrava confusa, ma per fortuna non sospettava nulla. Evidentemente attribuiva il cambiamento nelle sue visioni a una manovra del segugio anziché a un mio tradimento.

Jasper camminava in silenzio al mio fianco, tenendomi una mano sulla spalla, come se mi stesse guidando. Finsi di essere poco interessata ai primi bar dell’aeroporto, in cerca del mio vero obiettivo. Ed eccolo, finalmente, dietro l’angolo, lontano dalla vista acuta di Alice: il bagno del terzo piano.

«Ti dispiace?», chiesi a Jasper quando ci passammo davanti. «Ci metto un secondo».

«Ti aspetto qui».

Non appena la porta si chiuse alle mie spalle, iniziai a correre. Ricordavo che una volta mi ero persa in quel bagno, perché aveva due uscite.

L’altra porta era poco distante dagli ascensori, e se Jasper era rimasto dove l’avevo lasciato non poteva scorgermi. Corsi senza guardarmi alle spalle. Era la mia unica possibilità e dovevo andare avanti che mi vedesse o no. La gente mi guardava, ma la ignorai. Dietro l’angolo ecco gli ascensori, verso cui mi buttai infilandomi all’ultimo momento tra le porte di una cabina piena, diretta al piano terra. M’insinuai fra i passeggeri irritati e controllai che qualcuno avesse premuto il pulsante del primo piano. Era acceso, le porte si chiusero.

Quando si riaprirono, mi feci largo e schizzai fuori in un lampo, lasciandomi alle spalle le voci infastidite degli altri occupanti. Rallentai soltanto di fronte agli agenti di guardia nella zona di raccolta bagagli e tornai a correre a precipizio quando vidi l’uscita. Chissà dov’era Jasper. Se aveva seguito la mia scia, mi restavano pochi secondi. Saltai fuori dalle porte a vetri automatiche, rischiando di mandarle in frantumi quando mi accorsi che si aprivano troppo piano.