Lungo il marciapiede affollato non c’era l’ombra di un taxi.
Non avevo tempo. Nel giro di un minuto Alice e Jasper avrebbero capito che ero scappata, o forse lo sapevano già. Mi avrebbero trovata in un baleno.
A pochi metri di distanza da me, la navetta per lo Hyatt stava chiudendo lo sportello.
«Aspettate!», urlai, sbracciandomi.
«Questa è la navetta per l’Hotel Hyatt», disse l’autista, confuso, mentre riapriva le porte.
«Sì», sbuffai ansimando, «devo andare proprio là». Salii gli scalini di corsa.
Era perplesso per il fatto che non avessi nessun bagaglio, ma fece spallucce e non chiese altro.
I posti erano quasi tutti liberi. Mi sedetti il più lontana possibile dagli altri passeggeri, e vidi allontanarsi prima il marciapiede, poi l’intero aeroporto. Non potevo fare a meno di immaginare Edward, sul ciglio della strada, nel punto in cui terminava la mia scia. Non potevo permettermi di piangere. La strada era ancora lunga.
La mia fortuna proseguì. Di fronte allo Hyatt, una coppia dall’aria esausta stava estraendo l’ultima valigia dal bagagliaio di un taxi. Balzai giù dall’autobus e corsi verso l’auto, sgattaiolando sul sedile posteriore alle spalle del tassista. La coppia stanca e l’autista della navetta mi guardavano sbalorditi.
Diedi al tassista l’indirizzo di mia madre. «Devo arrivarci il più presto possibile».
«Ma è a Scottsdale», replicò lui.
Lanciai quattro pezzi da venti sul sedile.
«Sono abbastanza?».
«Certo che sì, ragazzina, nessun problema».
Mi abbandonai sullo schienale, incrociando le braccia. Le vie familiari della città iniziarono a sfrecciarmi attorno, ma non guardavo fuori dai finestrini. Cercavo di mantenere il controllo dei miei nervi. Ora che il mio piano aveva funzionato, ero decisa a non lasciarmi andare. Non aveva senso abbandonarmi di nuovo all’ansia, indugiare ancora nel terrore. La strada era segnata. Dovevo soltanto seguirla.
Perciò, anziché andare in panico, chiusi gli occhi e passai i venti minuti del viaggio in compagnia di Edward.
Immaginai di essere rimasta all’aeroporto. Vidi me stessa in punta di piedi, impaziente di vederlo nella ressa dei passeggeri. E lui che, veloce e aggraziato, si muoveva tra la folla che ci separava. Infine, mi sarei lanciata di corsa in quegli ultimi metri - temeraria come al solito - per sentirmi al sicuro nel suo abbraccio saldo come il marmo.
Chissà dove mi avrebbe portata. Forse al Nord, per poter uscire alla luce del giorno. O forse in un posto remoto, isolato, dove avremmo potuto restare entrambi al sole. Lo immaginavo su una spiaggia, con la pelle luccicante come il mare. Non m’importava quanto a lungo ci sarebbe toccato nasconderci. Restare intrappolata con lui in una stanza d’albergo sarebbe stato un paradiso. Avevo ancora così tante domande. Avrei parlato con lui senza sosta, senza mai dormire, senza mai allontanarmi dal suo fianco.
Ne vedevo i contorni del viso così nitidi... quasi sentivo la sua voce. E malgrado l’orrore e la disperazione, mi sentii leggera e felice. Ero talmente coinvolta nel mio sogno a occhi aperti da aver perso il senso del tempo.
«Ehi, a che numero hai detto?».
La domanda del tassista sgonfiò le mie fantasie come fossero un palloncino, spegnendo ogni colore di quelle dolci illusioni. La paura, dura e vuota, stava per riempire lo spazio che queste avevano occupato fino a un attimo prima.
«Cinquantotto ventuno», dissi, con voce strozzata. Il tassista mi sbirciò, temendo che stessi per avere una crisi o qualcosa del genere.
«Eccoci». Non vedeva l’ora che scendessi, e probabilmente sperava anche che non gli chiedessi il resto.
«Grazie», sussurrai. Ricordai che non c’era bisogno di avere paura. La casa era vuota. Dovevo sbrigarmi: mamma mi aspettava, impaurita, e la sua vita dipendeva da me.
Corsi verso la porta e con un movimento automatico cercai subito la chiave sotto la grondaia. Feci scattare la serratura e aprii. L’interno della casa era buio, vuoto, normale. Mi precipitai al telefono e accesi la luce in cucina. Lì, sulla lavagnetta, c’era un numero di dieci cifre scritto con una grafia minuta e precisa. Mi tremava la mano, non riuscivo a digitare le cifre giuste. Fui costretta a riattaccare e a ricominciare. Mi concentrai sui tasti, uno alla volta. Ci riuscii. Faticavo a tenere la cornetta salda vicino all’orecchio. Squillò una volta sola.
«Ciao, Bella», rispose la voce, affabile. «Che velocità. Complimenti».
«Mia madre sta bene?».
«Benissimo. Non preoccuparti, Bella. Non m’interessa lei. A meno che non ci sia qualcuno ad accompagnarti, ovviamente». Frivolo, ironico.
«Sono sola». Non ero mai stata così sola in vita mia.
«Molto bene. Dunque, sai dov’è la scuola di danza, vicino a casa di tua madre?».
«Sì, ci so arrivare».
«Bene. A presto, allora».
Riattaccai.
Corsi via dalla stanza, via dall’appartamento, e uscii nel caldo asfissiante.
Non c’era tempo di dare un’altra occhiata a casa mia, e non volevo neanche vederla, vuota com’era: un santuario trasformato nel simbolo della paura. L’ultimo a esserci entrato era stato il mio nemico.
Con la coda dell’occhio, mi sembrava di scorgere mia madre all’ombra del grande eucalipto sotto il quale giocavo da bambina. O inginocchiata presso la piccola chiazza di fango ai piedi della cassetta della posta, il cimitero di tutti i fiori che aveva tentato di piantare. I ricordi erano meglio di qualsiasi realtà che avrei mai potuto vedere, quel giorno. Ma ero costretta a lasciarmi tutto alle spalle, dietro l’angolo.
Mi sembrava di correre così piano, come sulla sabbia bagnata, nemmeno il cemento era un punto d’appoggio abbastanza solido. Inciampavo in continuazione, caddi e mi sbucciai le mani sul marciapiede, poi mi tirai su ma solo per cadere di nuovo. Se non altro, raggiunsi l’angolo della strada. Ora mancava soltanto una via: ripresi a correre senza fiato, con il viso coperto di sudore. Il calore del sole mi cuoceva la pelle, e la luce riflessa dal cemento bianco mi accecava. Mi sentivo in pericolo, allo scoperto. Con più forza di quanta avessi mai immaginato, desideravo tornare nella verde e protettiva foresta di Forks... a casa.
Girato l’angolo che incrociava con la Cactus, vidi la scuola di danza, esattamente come la ricordavo. Il parcheggio era vuoto, le persiane sbarrate. Non riuscivo più a correre, neppure a respirare: lo sforzo e la paura mi avevano prosciugata. Solo il pensiero di mia madre mi dava la forza di mettere un piede davanti all’altro.
Mi avvicinai, e notai il cartello appeso alla porta. Era scritto a mano, su una carta rosa acceso: diceva che la scuola era chiusa per le vacanze primaverili. Sfiorai la maniglia, spinsi la porta con cautela. Non era chiusa a chiave. Mi sforzai di controllare il respiro, e l’aprii.
L’atrio era buio e vuoto, raffreddato dal condizionatore che ronzava in un angolo. Contro una parete c’era una fila di sedie di plastica, e il tappeto profumava di shampoo. La stanza di sinistra era buia, la vedevo attraverso la finestrella dell’entrata. Le luci di quella più grossa, a destra, invece erano accese. Ma la finestrella era sbarrata.
Il terrore mi assalì, tanto da farmi sentire letteralmente intrappolata. Non riuscivo nemmeno a camminare.
A quel punto, sentii la voce di mia madre.
«Bella! Bella!». Quello stesso tono isterico e ansioso. Scattai verso la porta, verso il suono della sua voce.
«Bella, mi hai spaventata! Non farlo mai più!», continuò lei, mentre mi facevo strada verso la stanza lunga, dal soffitto alto.
Mi guardai attorno per cercare di capire da dove venisse la voce. La sentii ridere, e mi voltai di scatto.
Eccola, dentro il televisore, intenta ad accarezzarmi i capelli, tranquillizzata. Era il Giorno del Ringraziamento, avevo dodici anni. Eravamo andati a trovare mia nonna in California, l’anno prima che morisse. Un giorno avevamo fatto una gita in spiaggia e mi ero sporta troppo da un molo. Aveva visto i miei piedi muoversi convulsi nel tentativo di restare in equilibrio. Spaventata, aveva urlato: «Bella! Bella!».