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A quel punto iniziai a sentirmi davvero male. Leggevo nei suoi occhi la mia sofferenza imminente. Non si sarebbe accontentato di vincere, nutrirsi e andarsene. La conclusione non sarebbe stata veloce come mi aspettavo. Le mie ginocchia iniziarono a tremare, avevo paura di cadere a terra.

Fece un passo indietro e iniziò a girare in tondo, come se cercasse la prospettiva migliore da cui rimirare una statua in un museo. Stava decidendo da che parte cominciare e la sua espressione era ancora amichevole e serena.

Poi si acquattò, in una postura che conoscevo, e il sorriso si aprì fino a diventare tutt’altro: una tagliola di denti lustri e brillanti.

Non riuscii a trattenermi: provai a correre via. Malgrado fosse inutile e lo sapessi benissimo, malgrado le mie ginocchia fossero già deboli, il panico prese il sopravvento, e scattai verso l’uscita di sicurezza.

In un lampo fu davanti a me. Non mi accorsi se aveva usato la mano o il piede, era stato troppo veloce. Una botta secca mi colpì il petto, caddi all’indietro e sentii lo schianto della mia testa contro gli specchi. Il pannello si spezzò e riempì di schegge e briciole il pavimento attorno a me.

Ero tramortita, non sentivo nemmeno il dolore. Non riuscivo a respirare.

Lui si avvicinò lentamente.

«Bell’effetto», disse, in tono nuovamente cortese, osservando lo scempio del vetro rotto. «Avevo pensato che come scenografia per il mio piccolo film, questa stanza avesse un effetto visivo sensazionale. Perciò l’ho scelta. Perfetta, vero?».

Lo ignorai, mentre cercavo di strisciare verso l’altra porta, spingendomi con le braccia e le gambe.

In un istante fu sopra di me, mi schiacciò una gamba con un colpo secco del suo piede pesante. Sentii lo scrocchio insopportabile prima ancora che arrivasse il dolore, ma dopo un istante arrivò tutto, e mi lasciai scappare un urlo agonizzante. Mi allungai verso la gamba, ma lui era in piedi sopra di me e sorrideva.

«Gradiresti ritrattare le tue ultime volontà?», chiese, garbato. Con la punta del piede stuzzicava la mia gamba rotta, e sentii uno strillo acuto. Con sorpresa, mi accorsi che veniva da me.

«Non preferiresti ora che Edward mi trovasse?».

«No!», urlai, con il poco di voce che mi restava. «No, Edward, non...», e poi qualcosa si fracassò sulla mia faccia e mi rispedì sopra la specchiera rotta.

A sovrapporsi al dolore che saliva dalla gamba, sentii bruciare sul cranio il taglio netto provocato dai vetri. E qualcosa di liquido e caldo che si diffondeva tra i miei capelli a velocità allarmante. Inzuppava la manica della mia maglietta e gocciolava sul parquet. L’odore mi dava la nausea.

Tra la nausea e lo stordimento, vidi qualcosa che mi diede un’improvvisa e ultima speranza. I suoi occhi, che fino a poco prima si erano limitati a squadrarmi, ora bruciavano di un bisogno incontrollabile. Il sangue - che copriva sempre più di un rosso cremisi la mia maglietta bianca e allagava rapido il pavimento - lo stava facendo impazzire di sete. Quali che fossero le sue intenzioni originali, non sarebbe stato capace di trattenersi.

Fa’ che si sbrighi, era il mio unico pensiero mentre il sangue colava e goccia dopo goccia mi faceva perdere i sensi. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti.

Udii, come se fossi sommersa, il ruggito finale del cacciatore. Attraverso le lunghe gallerie che sentivo al posto degli occhi, vidi la sua sagoma scura avanzare verso di me. Il mio ultimo gesto istintivo fu quello di coprirmi il volto. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare.

23

L’angelo

Andavo alla deriva, e sognavo.

Mentre affondavo nell’acqua scura, sentii il suono più piacevole che la mia mente potesse ricostruire: bellissimo, rincuorante e altrettanto pauroso. Era un altro ringhio, anzi un ruggito, più profondo e selvaggio, pieno di furia.

Un dolore acuto squarciò la mia mano alzata davanti al volto e mi riportò quasi in superficie, ma non riuscivo a trovare la strada giusta per riaffiorare, per aprire gli occhi.

A quel punto capii di essere morta.

Perché, dal profondo, sotto quell’acqua di piombo, sentii la voce di un angelo che mi chiamava per nome, guidandomi verso l’unico paradiso che desideravo.

«Oh no, Bella, no!», gridava la voce dell’angelo, spaventato.

Oltre a quel suono tanto amato, sentivo un altro rumore, un tumulto tremendo da cui la mia mente cercava di fuggire. Un ringhiare cupo e malefico, uno schianto terrificante, e un lamento acutissimo che si troncò all’improvviso...

Cercai di concentrarmi sulla voce dell’angelo.

«Bella, ti prego! Bella, ascoltami, ti prego. Ti prego, Bella, ti prego!».

Avrei voluto rispondere con un sì. O in qualsiasi altro modo. Ma non riuscivo a trovare le labbra.

«Carlisle!», esclamò l’angelo, la sua voce perfetta agonizzava. «Bella, Bella, no! Oh ti prego, no, no!». E l’angelo iniziò a gemere, senza versare una lacrima.

Non era giusto, l’angelo non doveva piangere. Volevo trovarlo, dirgli che andava tutto bene, ma l’acqua era troppo profonda, e mi schiacciava, non riuscivo a respirare.

Sentii qualcosa premermi al di sopra della fronte. Faceva male. Poi, dopo quel dolore, nell’oscurità che mi attorniava ne sentii altri, più intensi. Gridai qualcosa, affannandomi nel tentativo di uscire dalla pozza scura.

«Bella!», urlò l’angelo.

«Ha perso sangue, ma la ferita alla testa non è profonda», mi informò una voce tranquilla. «Attento alla gamba, è rotta».

Un urlo di rabbia si strozzò nella bocca dell’angelo.

Sentii una fitta acuta al fianco. Questo non era il paradiso, certo che no. C’era troppo dolore.

«Anche qualche costola, credo», aggiunse la voce, metodica.

Ma le fitte erano sempre più deboli. Sentivo un dolore nuovo, che mi ustionava la mano e copriva tutto il resto.

Qualcuno mi stava bruciando.

«Edward», cercai di dire, ma la mia voce usciva lenta e pesante. Non riuscivo nemmeno io a sentirmi.

«Bella, andrà tutto bene. Mi senti, Bella? Ti amo».

«Edward». Ci riprovai, la mia voce migliorava.

«Sì, sono qui».

«Fa male».

«Lo so, Bella, lo so». Poi disse a qualcuno, allontanandosi da me: «Non puoi farci niente?».

«La valigetta, per favore... Trattieni il respiro, Alice, sarà meglio», le consigliò Carlisle.

«Alice?», farfugliai.

«È qui, sapeva dove ti avremmo trovata».

«Mi fa male la mano», cercai di dire.

«Lo so, Bella. Carlisle ti darà qualcosa per calmare il dolore», mi rassicurò Edward.

«La mano sta andando a fuoco!», urlai, sbattendo gli occhi e uscendo finalmente dall’oscurità. Ma non riuscivo a vederlo in faccia, perché qualcosa di caldo e umido mi annebbiava la vista. Perché non si accorgevano del fuoco, perché non lo spegnevano?

Lui sembrava spaventato: «Bella?».

«Il fuoco! Qualcuno spenga il fuoco!», gridavo, e intanto mi sentivo bruciare.

«Carlisle! La mano!».

«L’ha morsa». Carlisle non era più calmo, era sbigottito.

Edward aveva smesso di respirare, terrorizzato.

«Edward, devi farlo». Era la voce di Alice, vicina alla mia testa. Sentivo dita fredde sfregare i miei occhi umidi.

«No!».

«Alice», provai, la voce impastata.

«Potrebbe esserci ancora una possibilità», disse Carlisle.

«Quale?», lo implorò Edward.

«Prova a succhiarle il veleno. Il taglio è piuttosto pulito». Mentre Carlisle parlava, sentivo qualcosa premermi contro la testa, qualcosa che mi tastava la ferita sopra la fronte. Quel dolore si perdeva dentro il dolore per il fuoco ardente.

«Funzionerà?», chiese Alice nervosamente.

«Non lo so», disse Carlisle. «Ma dobbiamo sbrigarci».

«Carlisle, io... non so se ce la faccio». Nella bellissima voce di Edward si sentiva di nuovo l’agonia.

«La decisione spetta a te. Non posso aiutarti. Se tu succhierai il sangue dalla mano, io dovrò fare in modo che smetta di sanguinare qui, dalla testa».