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Mi dibattevo nella morsa di quella tortura infuocata, ma il movimento non faceva che amplificare il dolore alla gamba.

«Edward!», gridai. Avevo chiuso di nuovo gli occhi senza accorgermene. Li riaprii, provavo il bisogno disperato di rivedere il suo volto. E lo trovai. Finalmente avevo di fronte il suo viso perfetto che mi fissava, una maschera di indecisione e dolore.

«Alice, portami qualcosa per tenerle la gamba ferma!». Carlisle era piegato su di me, alle prese con la ferita sulla testa. «Edward, devi farlo subito, o sarà troppo tardi».

L’espressione di Edward era contratta. Vidi il dubbio nei suoi occhi improvvisamente scalzato da una bruciante determinazione. Strinse i denti. Sentii le sue dita fredde e forti immobilizzare la mano che mi bruciava. Poi si chinò, e avvicinò le labbra fredde alla mia pelle.

All’inizio, sembrava che il dolore peggiorasse. Urlai e mi dibattei cercando di liberarmi dalla sua stretta fredda. Sentii la voce di Alice che tentava di calmarmi. Qualcosa di pesante mi bloccava la gamba sul pavimento, e Carlisle mi costringeva la testa nella presa delle sue braccia di pietra.

Poi, lentamente, iniziai a dimenarmi meno, mentre la mano si intorpidiva. Il fuoco si stava spegnendo, si concentrava su un punto sempre più piccolo. Mano a mano che il dolore diminuiva, sentivo svanire i miei sensi. Temevo di ricadere nell’oceano buio, di perdere ancora Edward nell’oscurità.

«Edward». Cercavo di parlare, ma non sentivo la mia voce. Loro, per fortuna, sì.

«È qui, Bella».

«Resta, Edward, resta con me...».

«Sì, resto». La sua voce era esausta, ma trionfante.

Sospirai, tranquillizzata. Il fuoco si era spento, il resto dei dolori annebbiato da un torpore che andava avvolgendo il mio corpo.

«È uscito tutto?», chiese Carlisle, lontanissimo.

«Il sangue mi sembra pulito», rispose Edward. «Sentivo il sapore della morfina».

«Bella?», disse Carlisle.

Cercai di rispondere: «Mmm».

«Il fuoco è spento?».

«Sì», sussurrai. «Grazie, Edward».

«Ti amo», mi rispose lui.

«Lo so», dissi afona, senza forze.

Sentii il mio suono preferito: quello della risata a mezza voce di Edward, stanco e rincuorato.

«Bella?», chiamò di nuovo Carlisle.

«Cosa c’è?». Ancora. Volevo solo dormire.

«Dov’è tua madre?».

«In Florida», mormorai. «Mi ha imbrogliata, Edward. Ha guardato le nostre cassette». La rabbia nella mia voce sembrava fragile, inconsistente.

Ma ciò mi riportò alla memoria qualcosa.

«Alice», cercai di riaprire gli occhi, «Alice, il video... Ti conosceva, Alice, sapeva da dove vieni». Avrei voluto dirle tutto in fretta, ma la mia voce era troppo debole. «Sento puzza di benzina», aggiunsi, sorpresa: la mia mente era così annebbiata.

«Possiamo portarla via», disse Carlisle.

«No, voglio dormire», mi lamentai.

«Puoi dormire, cara, ti porto io», disse Edward per tranquillizzarmi.

Ed eccomi già accoccolata sul suo petto, tra le sue braccia. Fluttuavo, e non sentivo più il dolore.

«Adesso dormi, Bella», furono le ultime parole che udii.

24

Impasse

Aprii gli occhi e vidi una luce bianca, abbagliante. Ero in una stanza che non conoscevo, bianca anch’essa. La parete al mio fianco era occupata da lunghe veneziane a stecche, il neon accecante era sopra la mia testa. Mi avevano sistemata su un letto duro e irregolare: un letto con le sbarre. I cuscini erano piatti e bitorzoluti. Da qualche parte, accanto a me, sentivo un fastidioso e continuo bip. Speravo che ciò significasse che ero ancora viva. La morte non poteva essere così scomoda.

Le mie mani erano coperte di tubicini trasparenti, e sentivo qualcosa appiccicato sotto il naso. Cercai di strapparlo.

«Ferma lì». Una mano fredda mi bloccò.

«Edward?». Mi voltai un poco e vidi il suo volto squisito a pochi centimetri dal mio, il mento appoggiato al cuscino. Mi resi conto di essere davvero viva, e stavolta ero felice e grata. «Oh, Edward, mi dispiace tanto!».

«Sssh... adesso è tutto a posto».

«Cos’è successo?». Ricordavo poco, e la mia mente si rifiutava di ricostruire l’accaduto.

«Era quasi troppo tardi. Stavo per arrivare troppo tardi», sussurrò, con voce tormentata.

«Sono stata una stupida, Edward. Pensavo avesse preso mia madre».

«Ci ha imbrogliati tutti».

«Devo chiamare Charlie e la mamma», la consapevolezza si fece strada attraverso la nebbia.

«Li ha chiamati Alice. Renée è qui... be’, è in ospedale. È andata proprio ora a mangiare qualcosa».

«Qui?». Cercai di sedermi, ma la testa iniziò a girarmi più veloce, e le mani di Edward mi riaccompagnarono sul cuscino.

«Tornerà presto, stai tranquilla. Non muoverti».

«Ma cosa le avete detto?», chiesi, nel panico. Non mi interessava essere consolata. Mia madre era lì e io mi stavo riprendendo dall’assalto di un vampiro. «Che cosa le avete raccontato?».

«Che sei caduta da due rampe di scale e hai sfondato una finestra. Devi ammettere che ne saresti capace».

Feci un sospiro, e sentii il dolore. Osservai il mio corpo sotto le coperte, il fardello che avevo al posto della gamba.

«Quanto male mi sono fatta?».

«Hai una gamba rotta, quattro costole incrinate, un trauma cranico, ferite superficiali e contusioni dappertutto, e hai perso molto sangue. Ti hanno fatto qualche trasfusione. Non ho gradito, per un po’ hanno alterato il tuo odore».

«Dev’essere stato un bel fuori programma, per te».

«No, il tuo odore mi piace».

«Come hai fatto?», chiesi a mezza voce. Capì subito a cosa mi riferivo.

«Non lo so nemmeno io». Distolse lo sguardo, prese la mia mano fasciata dal letto e la strinse con dolcezza per non staccare uno dei fili che mi collegavano ai monitor.

Attesi con pazienza la spiegazione.

Sospirò, senza tornare ai miei occhi. «Era impossibile... trattenersi», mormorò. «Impossibile. Ma ce l’ho fatta». Finalmente alzò lo sguardo, accennando un sorriso: «È evidente che ti amo».

«Il sapore non è buono come il profumo?», risposi, sorridendo. Sentii male al viso.

«È anche meglio, meglio di quanto immaginassi».

«Scusa», mi pentii subito della battuta.

Alzò gli occhi al soffitto: «Come se di questo dovessi scusarti».

«E per cosa dovrei scusarmi?».

«Per avere rischiato di sparire dalla mia vita per sempre».

«Scusa», ripetei.

«So perché l’hai fatto», cercò di confortarmi. «È stata comunque una decisione irrazionale, va da sé. Avresti dovuto aspettarmi, avresti dovuto dirmelo».

«Non mi avresti lasciata andare».

«In effetti no», si rabbuiò, «non ti avrei lasciata».

Certi ricordi molto sgradevoli iniziavano a riaffiorare. Tremai, poi ebbi un sussulto.

Edward scattò all’istante, inquieto: «C’è qualcosa che non va?».

«Che fine ha fatto James?».

«Dopo che te l’ho tolto di dosso, se ne sono occupati Emmett e Jasper». Nella sua voce si leggeva una decisa nota di rimpianto.

Non capivo. «Ma non ho visto né Emmett né Jasper, lì».

«Sono stati costretti a uscire dalla stanza... troppo sangue».

«Ma tu sei rimasto».

«Sì».

«E Alice, e Carlisle...», aggiunsi, meravigliata.

«Ricorda che anche loro ti vogliono bene».

Una sequenza di immagini del mio ultimo incontro con Alice mi ricordò una cosa. «Alice ha visto il nastro?», chiesi, agitata.

«Sì». Una sfumatura di odio puro era sopraggiunta a incupire la sua voce.

«Era rimasta confinata sempre al buio, perciò non ricorda nulla».

«Lo so. Ora ha capito». Manteneva la voce composta, ma il viso era fosco, furioso.

Cercai di accarezzarlo con la mano libera, ma qualcosa mi bloccò. Abbassai lo sguardo e vidi l’ago della flebo.

«Ugh...».

«Cosa c’è?», chiese, di nuovo in ansia. L’avevo distratto, ma non abbastanza. L’ombra non aveva abbandonato del tutto il suo sguardo.