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«È per lui?», sussurrò.

Ero pronta a dirle una bugia, ma da come mi osservava capivo che non sarei riuscita a dissimulare.

«C’entra anche lui». Inutile raccontarle quanto. «Sei riuscita a parlarci un po’?».

«Sì». Restò in silenzio ad ammirare la sua sagoma perfettamente immobile. «E vorrei discuterne con te».

Accidenti. «Di cosa?».

«Penso che quel ragazzo sia innamorato di te», dichiarò, badando a tenere la voce bassa.

«Lo penso anch’io».

«E tu, cosa provi per lui?». Nascondeva piuttosto male la curiosità che l’attanagliava.

Sospirai e abbassai lo sguardo. Per quanto volessi bene a mia madre, non era questo il tipo di conversazione che desideravo sostenere con lei. «Direi che sono pazza di lui». Ecco... l’adolescente tipo che descrive il suo primo amore.

«Be’, sembra un bravo ragazzo, e santo cielo, è incredibilmente bello. Ma sei così giovane, Bella...». La sua voce era insicura: a memoria mia, era la prima occasione, da quando avevo otto anni, in cui si esprimeva con un tono che potesse suonare autorevole, quasi degno di un genitore. Riconobbi l’atteggiamento ragionevole-ma-deciso che aveva quando si parlava di uomini.

«Lo so, mamma. Non preoccuparti. È soltanto una cotta», la blandii.

«Va bene». Si accontentava di poco.

Poi sospirò e lanciò uno sguardo colpevole alle sue spalle, verso il grosso orologio da muro.

«Devi andare?».

«Phil dovrebbe chiamare tra poco... Non sapevo che ti saresti svegliata:..».

«Non c’è problema, mamma». Cercai di non farle sentire il sollievo nella mia voce per evitare di ferirla. «Non sarò sola».

«Torno presto. Ho dormito qui, sai», annunciò, fiera di sé.

«Oh, mamma, lascia perdere! Puoi dormire a casa, non me ne accorgerei neppure». I tranquillanti in circolo rendevano ancora difficile al mio cervello mantenere la concentrazione, malgrado avessi dormito per giorni interi, a quanto pareva.

«Ero troppo nervosa», ammise allora a capo chino. «Sono successe brutte cose nel quartiere e non sto tranquilla a casa da sola».

«Brutte cose?».

«Qualcuno ha fatto irruzione nella scuola di danza dietro casa nostra e l’ha incendiata: non è rimasto niente! E di fronte hanno lasciato un’auto rubata. Ti ricordi quando andavi a lezione lì, tesoro?».

«Ricordo». Sentii un brivido e trasalii.

«Se c’è bisogno di me, posso restare».

«No, mamma. Andrà tutto bene. Edward starà qui con me».

Pareva questa la ragione per cui anche lei desiderava rimanere. «Torno stasera», scandì lanciando l’ennesima occhiata a Edward. Sembrava più un avvertimento che una promessa.

«Ti voglio bene, mamma».

«Anch’io, Bella. Cerca però di stare più attenta a dove metti i piedi, non voglio perderti».

Gli occhi di Edward erano chiusi, ma sulle sue labbra passò un ampio sorriso.

Poi apparve un’infermiera, pronta a controllare i tubi e i fili. Mia madre mi baciò sulla fronte, mi sfiorò la mano bendata e se ne andò.

L’infermiera controllava il tabulato del cardiogramma.

«Sei un po’ agitata, piccola? Qui vedo un bell’aumento di intensità».

«No, tutto bene».

«Dirò alla caporeparto che ti sei svegliata. Tra un minuto verrà a controllarti».

Non aveva neanche chiuso la porta che Edward era già al mio fianco.

«Hai rubato un’auto?», indagai, alzando un sopracciglio.

Sogghignò, sfacciato. «Era una bella macchina, molto veloce», «Dormicchiato bene?».

«Sì. È stato interessante». Strinse gli occhi.

«Che cosa?».

Abbassò lo sguardo. «Sono sorpreso. Pensavo che la Florida... e tua madre... be’, pensavo fosse ciò che volevi».

Lo fissavo senza capirlo. «Ma a te toccherebbe restare chiuso in casa tutto il giorno. Potresti uscire soltanto di notte, come un vero vampiro».

Quasi sorrise, ma si trattenne. Poi tornò serio: «Sarei rimasto a Forks, Bella. O in un posto del genere. Ovunque, pur di non farti più soffrire».

Non capii subito. Stavo a guardarlo, inespressiva, mentre il mio cervello incasellava le sue parole, una dopo l’altra, come tessere di un inquietante puzzle. Mi accorgevo appena del bip del mio cuore che accelerava. Il dolore alle costole, invece, lo sentii bene, perché ero andata in iperventilazione.

Lui non disse nulla. Mi osservava guardingo, mentre un dolore molto più intenso, che non c’entrava nulla con le ossa rotte, minacciava di distruggermi.

Poi arrivò spedita un’altra infermiera. Edward rimase pietrificato, mentre lei mi osservava con occhio esperto e passava a controllare i monitor.

«Prendiamo un po’ di tranquillanti, piccola?», chiese gentile, picchiettando sul flacone della flebo.

«No, no», mormorai, cercando di cacciare via la sofferenza dalla voce. «Sto bene così». Non potevo permettermi di chiudere gli occhi proprio in quel momento.

«Non è il caso di essere coraggiosi, cara. È meglio che non ti stressi troppo: hai bisogno di riposo». Restò in attesa, ma io ribadii di no con un cenno.

«D’accordo», sospirò. «Suona il campanello quando ti senti pronta».

Lanciò un’occhiataccia a Edward e osservò per un’ultima volta i monitor con un filo d’apprensione, prima di andarsene.

Lui mi pose le sue mani fredde sul viso, io lo guardavo piena di agitazione.

«Sssh, Bella... calmati».

«Non lasciarmi», lo implorai, senza voce.

«No, te lo prometto. Adesso rilassati, così chiamo l’infermiera con i tranquillanti».

Ma il mio cuore non rallentava.

«Bella», mi accarezzò le guance, nervoso, «non andrò da nessuna parte. Sarò al tuo fianco ogni volta che avrai bisogno di me».

«Giura che non mi lascerai», bisbigliai. Cercavo almeno di controllare l’affanno. Sentivo le costole pulsare.

Avvicinò il mio viso al suo, tenendolo tra le mani. Il suo sguardo era aperto e serio. «Lo giuro».

Il profumo del suo respiro mi tranquillizzò. Riusciva a placare il dolore che sentivo respirando. Edward sostenne il mio sguardo fino a quando il mio corpo non iniziò a rilassarsi, lentamente, e il ritmo del cuore tornò normale. Aveva gli occhi scuri, più neri che dorati.

«Va meglio?», chiese.

«Credo di sì».

Scosse il capo e mormorò qualcosa. Mi sembrava di aver colto le parole “reazione esagerata”.

«Perché hai detto una cosa del genere, prima?», sussurrai, cercando di mantenere salda la voce. «Sei stanco di dovermi salvare in continuazione? Vuoi davvero che me ne vada?».

«No, non voglio stare senza te, Bella, certo che no. Sii razionale. Neanche doverti salvare è un problema. Ma il fatto è che sono io stesso a metterti in pericolo... in fondo è colpa mia se sei qui».

«Sì, se non fosse stato per te non sarei qui... viva».

«A malapena». La sua voce era un sussurro. «Coperta di bende e cerotti, nemmeno in grado di muoverti».

«Non parlo dell’ultima volta in cui ho rischiato di morire», sbottai, irritata. «Ce ne sono altre, scegline una. Se non ci fossi stato tu, sarei finita a marcire nel cimitero di Forks».

Le mie parole lo fecero sussultare, ma lo sguardo tormentato non se ne andava dai suoi occhi.

«Non è questa la parte peggiore, comunque», proseguì. Era come se non avessi parlato. «Non è stato averti vista là, sul pavimento... sottomessa e picchiata». La sua voce era soffocata. «Non è stato temere che fossi arrivato davvero troppo tardi. Nemmeno sentirti urlare di dolore... o tutti quei ricordi insopportabili che porterò con me per l’eternità. No, la parte peggiore è stata sentire... sapere che non sarei riuscito a fermarmi. Essere convinto che sarei stato io a ucciderti».

«Ma non l’hai fatto».

«Avrei potuto. Senza sforzo».

Dovevo mantenere la calma... ma stava cercando di convincersi a lasciarmi, e il panico che mi aveva riempito i polmoni voleva uscire.

«Prometti», mormorai.

«Cosa?».

«Lo sai, cosa». A quel punto stavo per arrabbiarmi. Era testardamente determinato a battere sul tasto del pessimismo.