Jacob distolse di nuovo lo sguardo, vergognandosi: «Non arrabbiarti, okay?».
«Non sono capace di arrabbiarmi con te, Jacob. E non mi arrabbierò con Billy. Dimmi pure».
«Be’... scusa, Bella, mi sembra talmente stupido... vuole che lasci il tuo ragazzo. Mi ha pregato di chiedertelo “per favore”». Scosse la testa, disgustato.
«È ancora superstizioso, eh?».
«Sì. Ha... perso la bussola, quando ti sei fatta male a Phoenix. Non ha creduto che...». Jacob si interruppe, imbarazzato.
Lo guardai, severa. «Sono caduta».
«Lo so».
«Pensa che Edward abbia a che fare con ciò che mi è successo». La mia non era una domanda e, malgrado la promessa, ero arrabbiata.
Jacob non osava guardarmi negli occhi. Non ci preoccupavamo nemmeno più di dondolare a ritmo, benché le sue mani fossero rimaste sui miei fianchi e le mie allacciate al suo collo.
«Senti, Jacob, so che Billy stenterà a crederci, ma te lo dico lo stesso». A quel punto tornò a fissarmi, rincuorato dal tono sincero delle mie parole. «Edward mi ha davvero salvato la vita. Se non fosse stato per lui e suo padre, a quest’ora sarei morta».
«Lo so», rispose, ma sembrava che fossero state le mie parole a rassicurarlo. Forse sarebbe riuscito a convincere suo padre almeno di questo.
«Senti, mi dispiace che tu sia venuto fin qui solo per questo, Jacob. Se non altro, vedi di rimediare il tuo pezzo mancante, eh?».
«Sì», bisbigliò. Era ancora impacciato... e sulle spine.
«C’è dell’altro?», chiesi, incredula.
«Lascia perdere. Mi troverò un lavoro e metterò da parte qualche soldo».
Restai a fissarlo finché non incrociò il mio sguardo: «Sputa il rospo, Jacob».
«Non ce la faccio».
«Non m’importa. Parla».
«Va bene... però, uffa, non è una bella cosa». Scosse il capo. «Ha detto di dirti, no, di avvertirti - guarda che il plurale è suo, non mio - che...», staccò le mani da me e mimò le virgolette, «“ti terremo d’occhio”». Attese la mia reazione, ansioso.
Sembrava la battuta di un film sulla mafia. Non riuscii a trattenere una risata ad alta voce.
«Mi dispiace che ti sia toccato farlo, Jake».
«A me non dispiace granché». Sorrise, finalmente rilassato. Lanciò un’occhiata di apprezzamento al mio vestito. «Quindi devo dirgli di farsi gli affaracci suoi?», chiese speranzoso.
«No», sospirai. «Ringrazialo. So che lo fa per il mio bene».
La canzone finì, e sciolsi l’abbraccio.
Lui esitò e guardò la mia gamba malconcia. «Vuoi ballare ancora? O vuoi che ti aiuti a spostarti?».
«Tutto a posto. La riprendo io».
Con grande stupore di Jacob, Edward era riapparso al nostro fianco.
«Ehi, non ti avevo visto», mormorò. «Allora ci vediamo, Bella». Fece un passo indietro e un cenno di saluto.
Sorrisi. «Sì, ci rivediamo presto».
«E scusami», ripeté ancora e si diresse verso la porta.
Appena attaccò la canzone successiva, le braccia di Edward mi avvolsero. Era un ritmo un po’ troppo sostenuto per ballare un lento, ma il mio cavaliere non sembrava preoccuparsene. Poggiai la testa sul suo petto, soddisfatta.
«Ora va meglio?», sondai.
«Non proprio».
«Non prendertela con Billy», sospirai. «È preoccupato per me perché Charlie è suo amico. Niente di personale».
«Non ce l’ho con Billy», precisò lui, brusco. «È suo figlio a irritarmi».
Indietreggiai per guardarlo meglio. Era molto serio.
«Perché?».
«Prima di tutto, mi ha costretto a violare la mia promessa».
Restai a guardarlo confusa.
Accennò un sorriso: «Avevo promesso che stasera non ti avrei mollata neanche per un secondo».
«Ah. Be’, sei perdonato».
«Grazie. Ma c’è dell’altro». Aggrottò le sopracciglia.
Aspettai che proseguisse.
«Ha detto che sei carina», aggiunse, infine, scuro in volto. «Il che è praticamente un insulto, stasera. Sei molto più che bellissima».
«Forse il tuo è un giudizio di parte», dissi ridendo.
«Non credo. Inoltre, la mia vista è perfetta».
Avevamo ricominciato a roteare vicini, i suoi piedi sotto i miei.
«Mi spieghi il perché di tutto questo?», domandai.
Mi guardò, confuso, e io accennai ai festoni di carta crespa.
Restò a pensare per un momento, e poi cambiò direzione, volteggiando assieme a me attraverso la folla, verso l’uscita posteriore della palestra. Con la coda dell’occhio mi accorsi di Jessica e Mike che ballavano. Lei mi salutò, e io risposi con un mezzo sorriso. C’era anche Angela, felice come una pasqua tra le braccia del piccolo Ben Cheney: non staccava gli occhi dai suoi, e lui era una spanna più basso. Poi Lee e Samantha, e Lauren, che ci osservava, insieme a Conner: riconoscevo i volti dentro la spirale che attraversavamo. Infine, eccoci all’aperto, nella luce fresca e morbida del tramonto.
Rimasti soli, mi sollevò tra le braccia e mi portò con sé attraverso il prato ormai buio, fino alla panchina ai piedi dei corbezzoli. Si sedette e prese a cullarmi stringendomi contro il suo petto. La luna era già sorta, faceva capolino attraverso le nuvole sottili, e il volto di Edward brillava pallido alla luce bianca. Le labbra erano tese, gli occhi irrequieti.
«Allora?», chiesi io sottovoce.
Non mi ascoltava, guardava la luna.
«Di nuovo il crepuscolo», mormorò. «Un’altra fine. Ogni giorno deve finire, anche il più perfetto».
«Non è detto che tutto abbia una fine», mormorai tra me, improvvisamente tesa.
Lui lasciò sfuggire un sospiro.
Infine, rispose alla mia domanda, lentamente: «Ti ho portata al ballo perché desidero che tu non ti perda niente. Non voglio che la mia presenza ti privi di nulla, finché mi è possibile. Voglio che tu sia umana. Voglio che la tua vita prosegua come se fossi morto nel 1918, come era mio destino».
Tremai a quelle parole e scossi il capo con stizza. «In quale strana dimensione parallela pensi che sarei venuta al ballo di mia spontanea volontà? Se tu non fossi mille volte più forte di me, non ti avrei mai lasciato fare».
Sulle sue labbra passò un sorriso, ma lo sguardo restò serio. «Non è andata così male, l’hai ammesso anche tu».
«Perché ero con te».
Per un po’ restammo in silenzio: Edward guardava la luna, io guardavo lui. Come avrei voluto sapergli spiegare quanto poco mi interessasse una normale vita da umana.
«Mi dici una cosa?», chiese, sbirciandomi col suo solito mezzo sorriso sulle labbra.
«Non ti dico sempre tutto?».
«Promettilo», insistette.
Sapevo che me ne sarei pentita all’istante: «D’accordo».
«Mi sei sembrata sinceramente sorpresa quando hai capito che ti stavo portando qui...».
«Sì, lo ero», lo interruppi.
«Appunto... ma certo sospettavi qualcos’altro... Sono curioso: per quale occasione pensavi che ti avessi fatto vestire così?».
Ecco, pentimento istantaneo. Increspai le labbra, esitante. «Non te lo dico».
«Hai promesso».
«Lo so».
«Che problema c’è?».
Di certo pensava che fosse soltanto per imbarazzo. «Non vorrei farti arrabbiare... o intristire».
Aggrottò le sopracciglia e ci pensò su. «Non m’importa. Per favore, dimmelo».
Feci un sospiro. Lui restò in attesa.
«Be’... davo per scontato che fosse un’occasione... speciale. Ma non immaginavo che fosse una mediocre faccenda umana... Il ballo di fine anno!», dissi sprezzante.
«Umana?», chiese, senza fare una piega. Aveva colto la parola chiave.
Mi guardai il vestito, giocherellando con un lembo dello chiffon. Edward, muto, restava in attesa.
«Va bene». Mi decisi a confessare. «Ecco, speravo che avessi cambiato idea... e che ti fossi deciso a cambiare me, dopotutto».