— Quella che hai trovato tu? Come? Non sembra più la stessa. Perché quei cambiamenti?
— Dovrà essere…
— Parla più forte!
— Una copia alluminata — strillò involontariamente frate Francis.
— Oh.
L'Abate Arkos scrollò le spalle e si allontanò.
Frate Horner, pochi secondi più tardi, mentre passava accanto allo scrittoio dell'apprendista fu sorpreso di vedere che Francis era svenuto.
8
Con grande sbalordimento di frate Francis, l'Abate Arkos non aveva più fatto obiezioni contro l'interesse del monaco verso le reliquie. Poiché i Domenicani avevano accettato di esaminare la faccenda, l'abate si era tranquillizzato; e poiché la causa per la canonizzazione aveva fatto qualche progresso a Nuova Roma, qualche volta sembrava dimenticare completamente che qualcosa di speciale era accaduto durante la vigilia vocazionale di Francis Gerard, AOL, già dello Utah, attualmente adibito alla copisteria. L'incidente era ormai vecchio di undici anni. Gli assurdi mormorii dei novizi sull'identità del pellegrino si erano spenti da molto tempo. Il più giovane dei nuovi arrivati non aveva mai sentito parlare della faccenda.
La faccenda era costata a frate Francis sette vigilie quaresimali nel deserto in mezzo ai lupi, in ogni caso, e quindi non osava mai considerare sicuro quell'argomento. Ogni volta che ne parlava, la notte seguente sognava i lupi e Arkos; nel sogno, Arkos continuava a gettare della carne ai lupi, e quella carne era Francis.
Tuttavia, il monaco aveva scoperto che poteva continuare il suo progetto senza essere molestato, tranne che da frate Jeris, il quale continuava a punzecchiarlo. Francis cominciò la vera e propria alluminazione della cartapecora. Gli svolazzi intricati e la tremenda delicatezza dell'inserzione delle foglie d'oro ne avrebbero fatto, naturalmente, un lavoro che avrebbe richiesto molti anni, tenendo conto della limitatezza del suo tempo libero: ma in un buio mare di secoli, in cui nulla sembrava scorrere, un vita intera era soltanto una breve marea, anche per l'uomo che la viveva. C'era il tedio dei giorni che si ripetevano e delle stagioni che si ripetevano: poi c'erano sofferenze e dolori, finalmente l'Estrema Unzione, e un attimo di tenebre alla fine… o piuttosto al principio. Perché allora la piccola anima tremante che aveva sopportato il tedio, bene o male, si sarebbe trovata in un luogo di luce, assorta nel bagliore ardente di occhi infinitamente compassionevoli, mentre si presentava davanti al Giusto. E poi il Re avrebbe detto "Vieni", o il Re avrebbe detto "Vai" e il tedio di anni interi era esistito solo per quel momento. Sarebbe stato difficile credere diversamente, in un'epoca come quella in cui viveva Francis.
Frate Sarl finì la quinta pagina del suo restauro matematico, crollò sulla scrivania, e morì poche ore dopo. Non importava. Le sue note erano intatte. Fra un secolo o due, sarebbe venuto qualcuno che le avrebbe giudicate interessanti, e forse avrebbe completato il suo lavoro. Nel frattempo, le preghiere salivano al cielo per l'anima di Sarl.
Poi c'era frate Fingo e la sua scultura in legno. Un anno o due prima era stato rimandato nella carpenteria, e aveva ottenuto il permesso di scolpire e di levigare, di tanto in tanto, la sua immagine semifinita del Martire. Come Francis, Fingo poteva dedicare solo un'ora ogni tanto al compito che si era scelto; la scultura progrediva con un velocità che era quasi impercettibile, a meno che non la si guardasse soltanto a intervalli di parecchi mesi. Francis la vedeva troppo di frequente per notare i progressi. Scoprì di essersi lasciato affascinare dalla esuberanza di Fingo, anche quando comprendeva che Fingo aveva adottato quelle maniere affabili per compensare la propria bruttezza, e gli piaceva trascorrere i minuti di ozio — quando gli capitava di averne — osservando Fingo al lavoro.
Il laboratorio di carpenteria era saturo dell'odore del pino, del cedro, della segatura, del sudore umano. Non era facile procurarsi il legno, all'abbazia. Salvo gli alberi di fico e un paio di pioppi vicini al pozzo, la regione era priva d'alberi. Occorreva un viaggio di tre giorni per raggiungere la più vicina rivendita di arbusti atrofici che passavano per legname, e spesso i monaci che andavano a procurare il legno si assentavano dall'abbazia per un settimana, prima di ritornare con qualche asinelio carico di rami che servivano a fare pioli, raggi per ruote o al massimo una gamba di sedia. Qualche volta trascinavano dietro di sé un tronco o due per sostituire una trave rotta. Ma con un rifornimento di legname così scarso, i carpentieri erano necessariamente anche scultori e incisori in legno.
Qualche volta, mentre osservava Fingo al lavoro, Francis sedeva su una panca in un angolo del laboratorio e disegnava, cercando di immaginare i particolari della scultura che erano ancora soltanto rozzamente incisi nel legno. C'erano i lineamenti del viso, vaghi e ancora mascherati da schegge e da segni dello scalpello. Con i suoi disegni, frate Francis cercava di anticipare quei lineamenti prima che emergessero dalla grana del legno. Fingo lanciava occhiate ai suoi disegni e rideva. Ma, via via che il lavoro progrediva, Francis non poteva respingere l'impressione che il viso della scultura sorridesse di un sorriso familiare. Schizzò anche quello, e l'impressione di familiarità aumentò. Eppure, non riusciva a individuare quel viso, o a ricordare chi gli avesse sorriso in quel modo ironico.
— Non è male, in verità. Non è affatto male — diceva Fingo dei suoi disegni.
Il copista alzava le spalle. — Non riesco a liberarmi dell'impressione di averlo già visto.
— Non da queste parti, fratello. Non ai miei tempi.
Francis si ammalò durante l'Avvento, e passarono parecchi mesi prima che ritornasse a fare visita alla carpenteria.
— La faccia è quasi finita, Francisco — disse lo scultore. — Ti piace, adesso?
— Ma io lo conosco! — boccheggiò Francis, fissando gli occhi grinzosi, gai e tristi, l'accenno di un sorriso ironico agli angoli della bocca… qualcosa che era quasi troppo familiare.
— Davvero? E chi è, allora? — domandò Fingo.
— È… bene, non sono sicuro. Mi pare di conoscerlo. Ma…
Fingo rise. — Stai riconoscendo i tuoi stessi disegni — disse, come spiegazione.
Francis non ne era altrettanto sicuro. Eppure, non riusciva a ricordare quel viso.
Hmmm-hnnn! sembrava dire quel sorriso ironico.
Tuttavia, l'abate giudicò irritante quel sorriso. Sebbene permettesse che l'opera venisse completata, dichiarò che non avrebbe mai consentito che la si usasse per lo scopo cui era stata destinata in origine… come immagine da porsi nella chiesa se la canonizzazione del Beato fosse stata compiuta. Molti anni dopo, quando la statua fu completata, Arkos la fece collocare nel corridoio della foresteria, ma più tardi la trasferì nel suo studio, quando l'immagine ebbe scandalizzato un visitatore proveniente da Nuova Roma.
Lentamente, faticosamente, frate Francis stava facendo della cartapecora un fulgore di bellezza. La voce del suo progetto si sparse oltre la cerchia della copisteria, e spesso i monaci si raccoglievano attorno alla sua tavola per osservare il lavoro e per mormorare la loro ammirazione.
— È ispirato — sussurrava qualcuno. — È una prova sicura. Può darsi che abbia veramente incontrato il Beato, là fuori…
— Non capisco perché non dedichi il tuo tempo a qualcosa di utile — brontolava frate Jeris, il cui spirito sarcastico era stato esaurito da molti anni di pazienti risposte da parte di frate Francis. Lo scettico aveva usato il proprio tempo libero per fabbricare paralumi per le lampade della chiesa, guadagnandosi così l'attenzione dell'abate, che ben presto lo incaricò di occuparsi dei perenni. E, come i libri dei conti cominciarono ben presto a testimoniare, la promozione di frate Jeris era giustificata.