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C'erano parecchi profughi morti, un cavallo morto, e l'ufficiale morente, bloccato sotto il peso del cavallo. Ogni tanto, il cavaliere rinveniva e gridava, con voce fioca. Qualche volta invocava sua madre, qualche volta invocava un prete. Le sue grida disturbavano le poiane e nauseavano ulteriormente il Poeta, che già si sentiva bisbetico. Era un Poeta molto fuori di sé. Non si era mai aspettato che il mondo si comportasse in modo cortese o sensato, e di rado il mondo si era comportato così; spesso si era rincuorato della consistenza della sua rozzezza e della sua stupidità. Ma mai, prima di quella volta, il mondo aveva colpito il Poeta all'addome con un moschetto. Questo non gli sembrava affatto incoraggiante.

E, cosa anche peggiore questa volta non doveva biasimare la stupidità del mondo, ma la sua propria. Era stato il Poeta a sbagliare. Stava pensando solo alle proprie faccende e non dava fastidio a nessuno quando aveva visto il gruppo di profughi galoppare da oriente verso la collina, inseguito da un drappello di cavalieri. Per evitare di essere coinvolto, si era nascosto dietro un cespuglio che cresceva sull'orlo di una delle scarpate che fiancheggiavano il sentiero, un punto da cui avrebbe potuto assistere allo spettacolo senza essere visto. Non era un combattimento che attraesse il Poeta, quello. Non gli importavano affatto i gusti politici o religiosi dei profughi o dei cavalieri. Se il destino voleva un massacro, non avrebbe potuto trovare un testimonio meno disinteressato del Poeta. Quindi, perché aveva provato quel cieco impulso?

L'impulso l'aveva spinto a lanciarsi dalla scarpata e a sbalzare di sella l'ufficiale e a pugnalarlo tre volte con il coltello prima che entrambi cadessero al suolo. Non riusciva a comprendere perché lo aveva fatto. Non aveva ottenuto nulla. Gli uomini dell'ufficiale l'avevano abbattuto prima che potesse rimettersi in piedi. Il massacro dei profughi era continuato. Poi i cavalieri si erano allontanati per inseguire altri fuggitivi, lasciandosi indietro i morti.

Sentiva il suo addome brontolare. L'inutilità, ahimè, di tentare di digerire una palla di moschetto. Aveva compiuto un gesto inutile, decise finalmente, per colpa di quella sciabola spuntata. Se l'ufficiale si fosse limitato ad uccidere la donna e a buttarla di sella con un solo colpo netto, e avesse proseguito, il Poeta avrebbe ignorato il suo gesto. Ma continuare a colpirla e a colpirla in quel modo…

Rifiutò di ripensarvi. Pensò all'acqua.

— O Dio… O Dio… — continuava a lamentarsi l'ufficiale.

— La prossima volta, affila la tua coltelleria — gemette il Poeta.

Ma non vi sarebbe stata una prossima volta.

Il Poeta non riusciva a ricordare di aver mai temuto la morte, ma aveva sospettato spesso la Provvidenza di tramare il peggio ai suoi danni, quando sarebbe venuto il momento di morire. Si era aspettato di imputridire. Lentamente, e non molto profumatamente. Qualche poetico presentimento l'aveva avvertito che sarebbe morto sicuramente di un bubbone lebbroso, penitente ma non pentito. Non aveva mai pensato a nulla di così ottuso e definitivo come una pallottola nello stomaco, senza neppure un pubblico che ascoltasse i suoi gemiti morenti. L'ultima cosa che l'avevano sentito dire quando gli avevano sparato era stato «Uf!»… il suo testamento per la posterità. Uuf!… un Memorabile per voi, Domnissime.

— Padre? Padre? — gemette l'ufficiale.

Dopo un po', il Poeta raccolse le sue forze e alzò di nuovo la testa, sbatté le palpebre per farne cadere il terriccio, e studiò l'ufficiale per qualche secondo. Era certo che fosse lo stesso che aveva assalito, anche se adesso era diventato d'un verde gessoso. Sentirlo belare invocando un prete in quel modo cominciava a infastidire il Poeta. C'erano almeno tre religiosi che giacevano morti fra i profughi, eppure adesso l'ufficiale non era molto schizzinoso nello specificare la sua richiesta. Forse lo farò io, pensò il Poeta.

Cominciò a trascinarsi, lentamente, verso il cavaliere. L'ufficiale lo vide arrivare e cercò di prendere una pistola. Il Poeta si fermò; non aveva previsto di essere riconosciuto. Si preparò per rotolare al coperto. La pistola puntava, ondeggiando, nella sua direzione. La guardò ondeggiare per un momento, poi decise di continuare la sua avanzata. L'ufficiale premette il grilletto. Il colpo lo mancò di parecchi metri, sfortunatamente.

L'ufficiale stava cercando di ricaricare l'arma quando il Poeta gliela tolse. Sembrava in delirio, e continuava a cercare di farsi il segno della Croce.

— Continua — grugnì il Poeta, prendendo il coltello.

— Beneditemi, Padre, perché ho peccato…

— Ego te absolvo, figlio — disse il Poeta, e gli affondò il coltello nella gola.

Poi trovò la borraccia dell'ufficiale e bevve qualche sorso. L'acqua era riscaldata dal sole, ma sembrava deliziosa. Giacque, con la testa appoggiata sul cavallo dell'ufficiale e attese che l'ombra della collina avanzasse strisciando sulla strada. Gesù, come faceva male! Quest'ultimo gesto non sarà facile da spiegare, pensò; e non ho neanche il mio occhio di vetro. Eppure c'è veramente qualcosa da spiegare. Guardò il cavaliere morto.

— È caldo come l'inferno, laggiù, non è vero? — sussurrò con voce rauca.

Il cavaliere non era disposto a dargli informazioni. Il Poeta bevve un altro sorso dalla borraccia, poi un altro. Improvvisamente vi fu un doloroso movimento delle budella. Per un attimo o due lo fece soffrire molto.

Le poiane si avvicinarono; si allisciarono le penne, e litigarono sul pranzo; non era ancora adeguatamente preparato. Attesero i lupi per qualche giorno. Ce n'era per tutti. E finalmente mangiarono il Poeta.

Come sempre, i neri becchini dei cieli deposero le uova nella stagione adatta, e nutrirono amorosamente i piccini. Volarono alti sulle praterie, sulle montagne e sulle pianure, adempiendo al destino della vita che spettava loro, secondo il piano della Natura. I loro filosofi dimostravano, mediante la sola ragione e senza altri aiuti, che il Supremo Cathartes aura regnans aveva creato il mondo specialmente per le poiane. Lo onorarono con cordiale appetito per molti secoli.

Poi, dopo le generazioni delle tenebre vennero le generazioni della luce. E lo chiamarono l'Anno del Signore 3781… un anno della Sua pace, pregarono.

PARTE TERZA

FIAT VOLUNTAS TUA

24

Vi furono di nuovo astronavi, in quel secolo, e le navi erano guidate da bizzarre impossibilità che camminavano su due gambe e avevano ciuffi di pelo su improbabili regioni anatomiche. Erano una specie garrula. Appartenevano a una razza capacissima di ammirare la propria immagine in uno specchio, ed egualmente capace di tagliarsi la gola sull'altare di qualche dio tribale, come la deità della Rasatura Quotidiana. Era una specie che si considerava, fondamentalmente, una razza di meccanici divinamente ispirati; qualsiasi entità intelligente di Arcturus avrebbe immediatamente intuito che essi erano, fondamentalmente, una razza di appassionati oratori da dopocena.

Era inevitabile, era destino manifesto, lo sentivano (e non per la prima volta), che la loro razza andasse a conquistare le stelle. Per conquistarle parecchie volte, se fosse stato necessario, e certamente per fare discorsi sulla conquista. Ma era anche inevitabile che la razza soccombesse di nuovo alle antiche malattie sui nuovi mondi, come prima sulla Terra, nella litania della vita e nella speciale liturgia dell'Uomo: i versetti venivano detti da Adamo, le Risposte dal Crocifisso.

Noi siamo i secoli.

Noi siamo i taglia-mento e gli sferza-gole,

e presto discuteremo l'amputazione della vostra testa.

Noi siamo i vostri spazzini-cantori, Signore e Signora, e marciamo in cadenza dietro di voi, cantando ritmi che a qualcuno sembrano strani.