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— Rileggo: Eminentissimo…

— Bene. È tutto. Chiudo.

Joshua aveva finito di leggere le istruzioni. Chiuse il portacarte e alzò lentamente lo sguardo.

— Siete pronto a farvi inguaiare? — chiese Zerchi.

— Non sono… non sono sicuro di comprendere. — Il volto del monaco era pallido.

— Ieri vi ho rivolto tre domande. E adesso ho bisogno delle risposte.

— Sono disposto ad andare.

— Rimangono due domande che aspettano risposta.

— Non sono sicuro per quanto riguarda il sacerdozio, Domne.

— Bene, dovete decidervi. Avete meno esperienza degli altri, in fatto di astronavi. Nessuno degli altri è stato ordinato. Qualcuno deve essere sollevato in parte dai compiti tecnici per svolgere compiti pastorali e amministrativi. Vi avevo detto che questo non significherà abbandonare l'Ordine. Ma il vostro gruppo diventerà una casa-figlia indipendente dell'Ordine, con una regola modificata. Il Superiore verrà eletto per ballottaggio segreto dai professi, naturalmente… voi siete il candidato più probabile, se avete vocazione per il sacerdozio. L'avete o non l'avete? Spetta a voi deciderlo, ed è ormai il momento.

— Ma, Reverendo Padre, io non ho finito di studiare…

— Non importa. Oltre l'equipaggio di ventisette uomini — tutti i nostri — partiranno altri: sei sorelle e venti bambini della scuola di Saint Joseph, un paio di scienziati, e tre vescovi, due dei quali appena consacrati. Possono ordinare, e poiché uno di loro è delegato del Santo Padre, avranno anche l'autorità di consacrare vescovi. Potranno ordinare voi, quando sentirete di essere pronto. Rimarrete nello spazio per anni, lo sapete. Ma vogliamo sapere se avete una vocazione, e vogliamo saperlo subito.

Frate Joshua balbettò per un momento, poi scosse il capo. — Non lo so.

— Volete mezz'ora di tempo? Volete un bicchier d'acqua? Siete diventato grigio. Devo dirvi, figliolo, che se dovrete guidare il gregge, dovrete essere in grado di prendere decisioni immediate? Sarà necessario. Ebbene, riuscite a parlare?

— Domne, non sono… sicuro…

— Riuscite a gracchiare, però, eh? Vi sottometterete al giogo, figliolo? O non siete ancora pronto? Vi verrà chiesto di essere l'asino che Lui cavalca per entrare in Gerusalemme, ma è un carico pesante, e vi spezzerà la schiena, perché Lui porta tutti i peccati del mondo.

— Non credo che ne sarò capace.

— Gracchiate e gemete. Ma sapete anche ringhiare, e questo va bene, per il capo del gregge. Ascoltate, nessuno di noi è veramente capace. Ma abbiamo provato, e siamo stati provati. Si prova fino alla distruzione, ma siamo qui per questo. Questo Ordine ha avuto abati d'oro, abati di freddo, duro acciaio, abati di piombo, corroso, e nessuno di loro era veramente capace, qualcuno era più capace degli altri, e c'è stato anche qualche santo. L'oro si è ammaccato, l'acciaio è divenuto fragile e si è spezzato, e il piombo corroso è stato ridotto in cenere dal Cielo. Io, ho avuto la fortuna di essere di mercurio; mi spezzo, ma in qualche modo riesco sempre a rimettermi insieme. Sento arrivare un'altra scissione, però, fratello, e credo che durerà per sempre, questa volta. Voi di che cosa siete fatto, figliolo? Che cosa sarà messo alla prova?

— Sono fatto di coda di cane. Sono di carne, e ho paura, Reverendo Padre.

— L'acciaio grida quando è forgiato, ansima quando lo si piega. Scricchiola quando è sottoposto a un carico. Io credo che persino l'acciaio abbia paura, figliolo. Volete mezz'ora per pensare? Un bicchier d'acqua? Una boccata d'aria? Uscite per un po'. Se vi viene il mal di mare, vomitate prudentemente. Se vi spaventate, gridate. Se accade qualcosa, pregate. Ma venite in chiesa prima della Messa, e diteci di cosa è fatto un monaco. L'ordine si scinde, e la parte di noi che va nello spazio, se ne va per sempre. Voi siete chiamato ad esserne il pastore, o no? Andate e decidete.

— Penso che non vi sia via d'uscita.

— C'è, naturalmente. Dovete dire soltanto "Non sono chiamato a questo". E allora sarà eletto qualcun altro, ecco tutto. Andate, calmatevi, e poi venite da noi in chiesa con un sì o un no. Adesso andrò là. — L'abate si alzò e fece un cenno di commiato.

Nel cortile, l'oscurità era quasi totale. Solo un lieve filo di luce filtrava sotto le porte della chiesa. La debole luminosità delle stelle era smorzata da una nebbia polverosa. A oriente non era ancora apparso alcun segno dell'alba. Frate Joshua vagabondò, in silenzio. Finalmente sedette su un muretto che cingeva un'aiuola di rosai. Appoggiò il mento sulle mani e fece rotolare un sasso qua e là, con il piede. Gli edifici dell'abbazia erano ombre buie e addormentate. Una luna fioca, che sembrava una fetta di melone, pendeva bassa, a sud.

Dalla chiesa veniva il mormorio di un canto: Excita, Domine, potentiam tuam, et veni, ut salvos… Mostra la tua potenza, o Signore e vieni a salvarci. Quell'alito di preghiera sarebbe continuato, finché c'era respiro per alitarla. Anche se i fratelli la giudicavano inutile…

Ma non potevano giudicarla inutile. O potevano? Se Roma aveva qualche speranza, perché fare partire l'astronave? Perché, se credevano che le preghiere per la pace sulla Terra sarebbero state esaudite? L'astronave non era un atto di disperazione…? Retrahe a me, Satanas, et discede! pensò. L'astronave era un atto di speranza. La speranza per l'Uomo, altrove, per la pace, altrove, se non qui e subito, almeno in qualche altro luogo: forse il pianeta di Alfa Centauri, Beta Hydriae, o una delle colonie che si dibattevano faticosamente su quel pianeta della stella Come-si-Chiama dello Scorpione. Mandare quella nave è speranza, non inutilità, maligno Seduttore. È una speranza debole e stanchissima, forse, una speranza che dice: "Togliti la polvere dai calzari e vai a predicare a Sodoma e a Gomorra". Ma è speranza, altrimenti l'astronave non partirebbe. Non è speranza per la Terra, ma speranza per l'anima e la sostanza dell'Uomo, in qualche altro luogo. Con Lucifero che incombe, non mandare l'astronave sarebbe un atto di presunzione; come tu, o immondo, tentasti Nostro Signore: "Se tu sei il Figlio di Dio, gettati dalla guglia del tempio, perché gli angeli ti sorreggeranno".

La troppa speranza per la Terra aveva guidato gli uomini a farne un Eden, e di questo potevano disperare fino al tempo della consunzione del mondo…

Qualcuno aveva aperto le porte dell'abbazia. I monaci si dirigevano quietamente verso le loro celle. Solo un lieve chiarore filtrava dalla porta nel cortile. La luce era fioca, in chiesa. Joshua poteva vedere soltanto poche candele e il fioco occhio rosso della lampada del santuario. Gli altri ventisei confratelli erano appena visibili, mentre si inginocchiavano, in attesa. Qualcuno chiuse di nuovo le porte, ma non completamente, così che da una fessura Joshua poté vedere ancora il punto rosso della lampada. Un fuoco attizzato per venerazione, ardente nella lode, ardente con dolcezza, là, nel suo ricettacolo rosso. Il fuoco, il più amabile dei quattro elementi del mondo, eppure un elemento dell'Inferno. Mentre bruciava in adorazione nel cuore del Tempio, aveva anche arso la vita di una città, quella notte, e aveva riversato il suo veleno sulla Terra. Com'è strano che Dio abbia parlato da un roveto ardente, e che l'Uomo abbia fatto del simbolo del Cielo un simbolo dell'Inferno.

Levò di nuovo lo sguardo verso le stelle polverose del mattino. Ebbene, non vi si sarebbe trovato l'Eden, dicevano. Eppure c'erano uomini, là, adesso, uomini che guardavano i soli stranieri in cieli stranieri, respiravano aria straniera, aravano terra straniera. Su mondi di tundra equatoriale congelata, mondi di fumante giungla artica, un po' simili alla Terra, forse, abbastanza simili alla Terra perché l'Uomo potesse vivervi, dello stesso sudore della propria fronte. Erano soltanto un pugno, quei celesti coloni dell'Homo loquax nonnumquam sapiens, poche colonie di umanità che avevano avuto ben poco aiuto dalla Terra, fino a quel momento; e adesso non potevano aspettarsi aiuto alcuno, là, nei loro nuovi non-Eden, ancora meno simili al Paradiso di quanto fosse mai stata la Terra. Fortunatamente per loro, forse. Più gli uomini si avvicinavano al perfezionamento di un loro paradiso, più sembravano impazienti verso quel paradiso e verso se stessi. Facevano un giardino di delizie, e divenivano progressivamente più miserabili verso di esso, via via che esso cresceva in ricchezza e in potenza e in bellezza: perché allora, forse, era più facile per loro vedere che in quel giardino mancava qualcosa, qualche albero o cespuglio che non sarebbe cresciuto. Quando il mondo era nell'oscurità e nella infelicità, poteva credere nella perfezione e la desiderava ardentemente. Ma quando il mondo si ammantava di ragione e di ricchezze, cominciava a sentire la strettezza della cruna dell'ago, e questo era terribile per un mondo che non desiderava più credere e desiderare. Bene, stavano per distruggerlo ancora, non era così?… questo giardino Terra, civile e sapiente, doveva essere di nuovo fatto a pezzi perché l'Uomo potesse sperare ancora, nell'infelicità e nell'oscurità.